Parolacce in tv. Hanno tutte lo stesso suono e lo stesso peso?

Il primo a sdoganare l'uso delle "brutte parole" fu Cesare Zavattini nel 1976. Due recenti episodi avvenuti sulla "Tv di Stato" italiana fanno riflettere

di Giovanna Guzzetti

No, non va bene. Il turpiloquio non si addice a una pacata conversazione, a un dibattito, e non dovrebbe trovare ospitalità in uno scambio di opinioni degno di un civile consorzio. Per non parlare della bestemmia, che del turpiloquio è la peggiore degenerazione.
Si potrebbe ora scatenare un dibattito sulle espressioni alle quali attribuire la definizione di turpiloquio, identificato come “modo di esprimersi osceno o blasfemo offensivo nei riguardi della morale individuale o della pubblica decenza”.

Ma allora quello che è avvenuto domenica 19 marzo sulla Reti 1 (la ammiraglia) e 3 della Rai Radiotelevisione Italiana è da annoverarsi alla voce “ricorso al turpiloquio”?

Veniamo ai fatti.
Nel programma di attualità ed approfondimento “In mezz’ora” condotto su Rai 3 da Lucia Annunziata, la giornalista dedica la puntata, fra l’altro, al tema delle famiglie omogenitoriali alle prese con la difficoltà, quando non la negazione, del diritto alla trascrizione del nome di entrambi i genitori (dello stato sesso) quando registrano la nascita dei propri figli. L’ultimo caso a Milano, dove il prefetto ha fornito indicazioni restrittive, cui il sindaco Sala ha dichiarato di non volersi attenere.
Gli animi – è presente la ministra per la Famiglia (tradizionale), Roccella – si scaldano, si passa a parlare di maternità surrogata (utero in affitto): temi scabrosi, non c’è che dire, visto il richiamo a questioni di bioetica. Annunziata e Roccella, si sa, sono su fronti (politico-ideologici) opposti; la conduttrice incalza come è nel suo stile, la ministra prende (dialetticamente, crede lei) tempo ed è qui che l’Annunziata sbotta (o esorta?) “Prendete la responsabilità di fare queste leggi, ca@@o!".

Apriti cielo! Certo, l’uscita della giornalista non appartiene al linguaggio comunemente utilizzato in tv (altra cosa sono i fuori onda), ma da lì a chiederne la testa ce ne vuole. Invece accade: valutare provvedimenti, esposto all’Agcom.
In commissione Vigilanza Rai gli esponenti di Fratelli d’Italia, primo partito del Paese, puntano il dito contro l’Annunziata: “faziosità e ideologia si pongono agli antipodi rispetto al servizio pubblico. È arrivato il momento di cambiare pagina”. Che bagarre!

Stesso giorno, stessa fascia oraria pomeridiana. Il programma contenitore di Rai 1 non può non celebrare la Festa del Papà. La scelta di colui che incarna la categoria è peculiare. Vittorio Sgarbi, in studio con due dei suoi figli, due ragazze nate nel 2000 e nel 2001, da madri diverse. Il particolare anagrafico non è irrilevante.

Sgarbi, che più che padre andrebbe definito disseminatore, riferisce quanto, sovente, gli dice la sua assistente: “Le ragazze nate nel 2000 sono tutte tro@e”. Una delle figlie di Sgarbi è nata in quell’anno; il padre non se lo ricorda e antedata l’arrivo al mondo della pargoletta.

Altro che intercalare scurrile! Qui l’offesa è pesante, e grave, alle donne (e anche le sole nate nel 2000 non sono poche!). In epoca di #metoo, dopo la condanna a chi ha palpeggiato la giornalista sportiva in diretta, dopo la cacciata di Memo Remigi dal programma Oggi è un altro giorno per un gesto di troppo con una presenza femminile fissa del cast, apostrofare le ragazze nate nel 2000 in questo modo è sostanzialmente passato sotto silenzio rispetto alla eco della versione meno garbata del “perbacco” dell’Annunziata.

Questa disparità oltre che iniqua è vergognosa e indice di un machismo verbale fuori luogo ed anacronistico. Oltre ad un atteggiamento bacchettone nei confronti del dejà vu.

Correva il 25 ottobre 1976 quando Cesare Zavattini, dai microfoni di Radio anch’io (Radio Rai 1) esclamò: “E adesso dirò una parola che finora alla radio non ha mai detto nessuno”. Lunga pausa di silenzio, attesa, curiosità: “Ca@@o…”. Un putiferio ma, in qualche modo, quella parola (e forse la parolaccia…) venne sdoganata.
Con tono esortativo, fece ricorso allo stesso termine il capitano De Falco per convincere l’eroico Schettino all’epoca del naufragio della Costa Concordia (2012). “Torni a bordo, ca@@o”. Accidenti se aveva fatto De Falco bene a redarguire, in modo ruvido, il pavido nocchiero!

Episodi, questi, che ricordiamo anche con il sorriso sulle labbra. Di rottura Zavattini; umano il capitano. Ma nulla di tutti ciò è ravvisabile nelle parole di Sgarbi che, con il suo fare da prepotente piacione (il primo prevale), non solo ha offeso sua figlia (palese l’imbarazzo delle ragazze), ma ha additato il genere femminile con quella violenza verbale da quadrivio che spiana la strada alla violenza fisica, alla sopraffazione, allo stupro vero e proprio. Come spesso capita di sentire negli audio che accompagnano le performances bestiali di questi vigliacchi.

Ma quella di Sgarbi può essere derubricata a bravata, battuta fuori luogo rispetto alla parola dal sen fuggita dell’Annunziata. Forse il critico d’arte, nei deliri di onnipotenza che spesso lo accompagnano, si sarà sentito nei panni di un novello Aristofane, cui viene attribuita l’invenzione delle parolacce, o di un epigono di Catullo, che dall’Odi et amo passava ai peggiori epiteti per la sua Lesbia.

C’è da augurarsi che l’infelice battuta di Sgarbi non passi alla storia. Di certo non a quella della letteratura; caso mai quella del pessimo gusto. 

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Chi dice “donna” dice ancora “danno”?