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Un viaggio in Sicilia, fra Augusta e Siracusa, trenta e più chilometri di territorio profondamente contaminato, fabbriche, cisterne e ciminiere che si estendono a macchia d’olio sfigurando il paesaggio, dove da oltre settant’anni si consuma un disastro ambientale di proporzioni incalcolabili. I trentadue scatti di Alberto Campi compongono l’inserto fotografico del libro-inchiesta Il mare colore veleno del giornalista Fabio Lo Verso, pubblicato nel 2023 da Fazi Editore.

Nell’immediato dopoguerra Angelo Moratti aveva importato dal Texas gli impianti di una fabbrica dismessa. Si narra che i pezzi della raffineria texana fossero già obsoleti per gli Stati Uniti. L’imprenditore lombardo convinse i responsabili del piano Marshall di fargliene dono, con altrettanta abilità ottenne una cospicua linea di credito dal Banco di Sicilia e cominciò la produzione con un pontile e tre serbatoi presi in prestito dalla Marina Militare Italiana.

Da Augusta la linea ferroviaria in direzione di Siracusa scorre direttamente in mezzo agli impianti, è il punto di vista ideale per osservare da vicino il più grande polo petrolchimico del Sud Europa. Il primo stabilimento che si osserva dal finestrino è anche il più antico, l’ex rasiom, Raffineria Siciliana Oli Minerali, sorto nella pe- riferia di Augusta nel 1949. Era stato l’imprenditore lombardo Angelo Moratti ad accendere le fiaccole della raffinazione petrolifera in Sicilia.

Da Augusta a Siracusa la popolazione convive da decenni con tre impianti di raffinazione, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio, due fabbriche di gas industriale e decine di aziende dell’indotto. Trenta chilometri e forse più di costa divorati da impianti neri di bitume, cisterne di ogni tipo, tubazioni che formano giganteschi labirinti di metallo, ciminiere che sputano fuoco e fumo nero e malcelati condotti di scarico a mare.

L’espansione delle fabbriche si è spinta fino a ravvicinarsi pericolosamente alle abitazioni, in barba alla direttiva Seveso sulla distanza fra gli stabilimenti e le zone residenziali. Per far posto a una raffineria è stato addirittura sgomberato e poi raso al suolo un villaggio di pescatori, Marina di Melilli. L’ultimo abitante, Salvatore Gurreri, che si era opposto al trasloco coatto, è stato trovato morto nel giugno del 1992, legato mani e piedi, “incaprettato” nel gergo mafioso siciliano.

Sulla costa ovest di Augusta, i balconi delle abitazioni sono con vista sullo scempio. Lo sguardo attraversa lo specchio d’acqua della rada e si perde nelle industrie che hanno inghiottito il litorale. Da ogni fabbrica, vicina o lontana, si levano maleodoranti effluvi che si diffondono nelle strade e invadono saloni, cucine e camere da letto, cogliendo a volte gli abitanti nel sonno. Capita che le puzze siano da capogiro, causando emicranie persistenti e forti nausee.

Nelle acque della rada di Augusta solcate dalle petroliere, fin dagli anni Cinquanta è stata sversata una sbalorditiva miscela di sostanze tossiche – mercurio, piombo, idrocarburi, arsenico, esaclorobenzene e diossine. Mescolandosi con i sedimenti dei fondali, queste sostanze hanno formato un impasto inimmaginabile. Se fosse calcestruzzo, si potrebbero costruire tremila palazzi di sei piani, l’equivalente di una cittadina di ottantamila persone, il doppio della popolazione di Augusta.

Parte della penisola di Magnisi è divenuta un deposito di ceneri tossiche. Nel 2006 si doveva procedere alla loro rimozione. «Un’ordinanza del Ministero dell’Ambiente bloccò i lavori», racconta un responsabile locale di Legambiente. Gli operai stesero alla bell’e meglio sui cumuli di cenere teloni di plastica fermati con mattoni di cemento. L’effimera protezione è stata per oltre un decennio usurata dalle intemperie, lasciando le ceneri libere ai quattro venti.

Le ceneri nocive della penisola di Magnisi sono state depositate a circa mezzo chilometro dalla spiaggia di Priolo. In gran parte senza copertura. Con aria inquieta il responsabile locale di Legambiente scrutava l’orizzonte: «Il problema è che il vento alza le polveri cancerogene, e vai a sapere chi le respira». Penso a quelle parole osservando due bambine che giocano in riva al mare. Di fronte si scorge la penisola e una brezza soffia nella loro direzione.

Qui, presso la spiaggia di Priolo, nel 2005 è stata perforata la tubazione di un pontile per il carico e lo scarico di greggio. La fuoriuscita di petrolio si è estesa sul mare per centinaia di metri. Se ne ricordava ancora, a quindici anni di distanza, Giuseppina, una delle assidue frequentatrici del luogo: «Dopo l’incidente petrolifero, il mare è stato bonificato, adesso è cristallino, si vedono i pesci, significa che non è inquinato. Non andate a dire in giro che non è così, mi raccomando».

La spiaggia di Priolo è la rappresentazione in scala dell’assedio industriale che la cittadina siciliana subisce da più di mezzo secolo. A poche centinaia di metri si stagliano gli impianti sporcati dal processo di raffinazione del greggio. Con il riverbero del sole, si ha l’impressione di poterli toccare con la mano. Il capolavoro di Priolo è di aver trasformato in un’oasi naturale il sito marino siciliano più accerchiato dalle fabbriche petrolchimiche.

Gli scienziati lavorano sulle curve di ricaduta entro le quali le sostanze inquinanti emesse dalle fabbriche rimangono nocive per la salute. Le coltivazioni agricole danno luogo a prodotti alimentari nocivi? Da un’indagine si è arrivati alla conclusione che le sostanze vengono scisse o trasformate dalle verdure. I ricercatori parlano di «effetti di riduzione» e aggiungono però che non comportano l’eliminazione dei contaminanti «ma semplicemente un trasferimento da un organismo all’altro».

Le curve di ricaduta delle emissioni industriali richiedono un calcolo complesso che dipende dal meccanismo di trasferimento dei contaminanti. Aria, cibo, acqua? A seconda della matrice, i meccanismi di dispersione cambiano e i raggi di distribuzione altrettanto, e in maniera rilevante. Dalle verdure le sostanze passano dunque a quel bestiame che pascola a ridosso delle fabbriche? Ruminando a un tiro di schioppo dagli impianti accentuano a ogni modo una dimensione anomala.

Esplorando la rada di Augusta scorgiamo un barchino di pescatori di frodo proprio mentre calano le reti con disprezzo del divieto di pesca vigente dal 2007. Di solito, escono di notte: «Operano ormai anche alla luce del giorno, vedrai», ci aveva avvisato un ricercatore. La pesca di frodo, in un mare profondamente inquinato, non vale più come gesto di sopravvivenza, la cui “arte” rimane un tratto fondante della cultura dell’arrangiarsi. È un’avventura regressiva che preclude ogni futuro.

Il cimitero delle navi, un’accozzaglia di relitti che i viaggiatori sbalorditi vedono sfilare dal finestrino del treno, occupa una porzione della rada dove si è deciso, per oscuri motivi, di parcheggiare i relitti di imbarcazioni abbandonate o sequestrate. L’impressione prevalente è la stessa che ci ha accompagnato nel viaggio attraverso il quadrilatero industriale siracusano: la cognizione del declino. Dopo una lunga attesa, nel 2021 è stato rimosso un primo relitto.

Ad Augusta, un parroco si oppone all’inquinamento industriale. Don Palmiro Prisutto va subito al sodo: «Se dovessi morire di cancro, sarebbe un omicidio». Per il prete, l’industria è colpevole, e non è il solo a pensarla così. Ma la gente tace, le voci di dissenso si contano appena sulle dita di due mani. Varrebbe qui l’antichissima regola del vivere siciliano: «Cu si fa li cazzi soi, campa cent’anni». Se non fosse che, calcola don Palmiro, nella sua città «a malapena si raggiunge l’età della pensione».

Don Palmiro Prisutto compila dal febbraio del 2014 un elenco delle vittime di tumore. Nove anni dopo contava oltre milleduecento nomi. Ogni 28 del mese, il prete scandisce durante l’omelia cognomi e nomi delle vittime, età e tipologia di tumore. Intitolata Piazza Martiri del Cancro, la lista funebre è composta con il contributo dei fedeli che segnalano i motivi dei decessi avvenuti in famiglia. Il parroco insiste: «Ad Augusta, un adulto su due non arriva ai sessantacinque anni!».

Il campo di calcio di Augusta è stato rivestito di un impasto solidificato di ceneri industriali, composto da scarti di processi chimici. Per lunghi anni, centinaia di sventurati calciatori si sono passati la palla correndo su un terreno pieno zeppo di sostanze tossiche. Chiuso negli anni Novanta in attesa della bonifica, è stato da allora lasciato all’abbandono. Il muretto di recinzione, che ha ceduto ampi varchi a gatti e cani randagi, dà l’impressione di sgretolarsi da un momento all’altro.

Sullo storico cancello dello stadio di Augusta è posta la data del 1908, l’anno della fondazione dell’FCD Megara, il football club dilettantistico della città. La squadra è classificata nel girone d della promozione Sicilia e gioca fuori città le gare casa- linghe, in un impianto calcistico di proprietà privata. Nel 2022 sono stati avviati i lavori per la messa in sicurezza del campo e la costruzione di una nuova struttura con spogliatoi, tribune per gli spettatori e robuste recinzioni.

«Ad Augusta, si muore di cancro», denunciò qualche anno fa la scrittrice Catena Fiorello, che qui è vissuta come i fratelli Rosario e Beppe. Al cimitero cittadino, il macabro scenario si conferma ogni giorno. Sotto un tiepido sole incontriamo il titolare di una ditta incaricata della manutenzione delle tombe. Capisce subito di cosa vogliamo parlare e attacca: «Mio fratello è morto a sessantadue anni di tumore». Poi aggiunge: «Lì riposa un morto per cancro, là pure e anche là in fondo».

Ad Augusta gli unici scorci di mare pulito si trovano da Faro Santa Croce fino a Brucoli. Ma per giungerci occorre aggirare le scogliere di Punta Izzo o scavalcare il Monte Tauro. Da qualche tempo grazie alle immagini circolanti sui social, lo Sbarcatore dei Turchi, luogo da sempre frequentato da locali, è stato scoperto anche dai turisti. Qui giocatori del circolo del padel aziendale condividono gli scogli con catanesi e stranieri. Ma la scogliera sta crollando, e ora è vietato l’accesso.

Salvatore Gurreri è stato barbaramente ucciso nel 1992 perché non voleva abbandonare la casa in cui viveva a Marina di Melilli. Era rimasto solo, l’unico a non essersi arreso fra il migliaio di abitanti di quel villaggio di pescatori in riva al mare, sgomberato e spazzato via dalle ruspe per costruire una raffineria. Per non dimenticare, gli è stato dedicato un murale dipinto su un rudere fra le rovine di quel che resta del borgo marinaro. L’opera d’arte è stata inaugurata nell’agosto del 2019.

Superando gli impianti, si accede al litorale dove si scorge una diga di contenimento per tentare di frenare la fuoriuscita della schiuma eruttata da uno scarico industriale. Nelle acque torbide fra Augusta e Siracusa, si sono registrati nei decenni diversi episodi di moria di pesci. Il più recente è avvenuto nel novembre del 2019, l’ultimo di una lunga serie. Il fenomeno più grave è accaduto nel 1979. Sulle cause sono state avanzate diverse ipotesi, fra queste spicca l’attività industriale.

Negli anni in cui il polo siracusano era all’apice della produttività, quando impiegava cioè tre volte gli operai odierni, si contavano circa novanta camini dai quali fuoriuscivano i contaminanti gassosi, così come le polveri sospese in aria. All’epoca un medico di Priolo, Antonino Bonocore, si era dato l’incarico di tradurre con un tremendo esempio la densità dell’inquinamento atmosferico: «Viviamo come se ci trovassimo in una stanza chiusa insieme con novanta fumatori».

Si chiama NOSE, acronimo di Network for Odour Sensitivity, ed è un’applicazione per segnalare in tempo reale gli effluvi industriali maleodoranti avvertiti sul territorio. È stata creata nell’estate del 2019, e nei primi dodici mesi in cui è stata attivata sono state superate le ottomila segnalazioni. Il malessere più sentito è stato la difficoltà nel respirare con 3808 casi, seguito da 3133 bruciori o irritazioni alla gola e 2760 mal di testa. Per alcuni, tutti insieme.

La torre di Magnisi, tozza e intatta, usata nell’Ottocento per avvistare le navi, sembra irraggiungibile. Circondata dalle industrie, è una meta turistica poco frequentata. Così come lo sono l’area archeologica di Megara Iblea, colonia greca del 728 a.C., gli ipogei sepolcrali di Priolo, risalenti agli albori del cristianesimo, e l’abitato miceneo di Thapsos, uno dei siti archeologici più importanti del Mediterraneo, sul quale è sorta la fabbrica di bromo Espesi, dismessa negli anni Settanta.

Oltre alle emissioni nocive nell’aria, nella zona industriale siracusana un’altra questione è divenuta lancinante: l’inquinamento della falda acquifera. Nel 2020 il rapporto “H2O. La chimica che inquina l’acqua” riportava alla luce la contaminazione delle acque superficiali e delle falde freatiche in profondità con metalli pesanti e sversamenti di idrocarburi, «sostanze che hanno causato», afferma il documento, «fenomeni di eutrofizzazione diffusa e alterazione nella catena alimentare».

Le enormi cisterne di idrocarburi sono dotate di tetti galleggianti a stantuffo che salgono e scendono a seconda del livello di riempimento. Da qui fuoriescono quintalate di emissioni di idrocarburi. Dopo vari test si è arrivati alla conclusione che con questo tipo di serbatoi, i più consueti nell’area, non è possibile evitare esala- zioni nocive. Il fenomeno è acuito dal numero di ore annue di esposizione al sole, considerato che la zona siracusana registra il picco più alto in Italia.

Il polo petrolchimico valeva prima della crisi sanitaria il 51% del pil della provincia di Siracusa. Con una capacità di produzione di mezzo milione di barili di greggio al giorno, è tuttora il secondo in Europa, dopo quello di Rotterdam. Qui si raffina il 30% del fabbisogno nazionale di idrocarburi. Ma è il luogo in cui l’industria italiana ha perso la guerra della globalizzazione. Con l’eccezione dell’Eni, le industrie appartengono a gruppi stranieri, Sonatrach, Lukoil e Sasol.

A pochi metri dalla spiaggia attrezzata e dalla riserva naturale di Priolo sorge la centrale termoelettrica Archimede di Enel. L’azienda energetica nazionale nel 2010 ha installato un insolito percorso vita, completo di barre di trazione, anelli e assi da equilibrio, ma con poco verde e qualche cespuglio che ne ha viste troppe. «donato da Enel», indica una targa in marmo bianco. Chiedo in giro, nessuno sembra aver mai visto un solo sportivo della domenica sudare fra le attrezzature.

L’area industriale è in parte in stato di abbandono. Negli anni, diversi impianti sono stati chiusi per ragioni economiche. Fra le sterpaglie si scoprono strutture dismesse, seminascoste da mura di recinzione fatiscenti; il calcestruzzo sgretolato ne svela l’armatura in ferro arrugginito. Discariche illegali sono apparse in queste zone desolate. Nell’area sono circa una ventina, ma ormai non si contano più, «appena ne chiudi una, subito ne scovi un’altra», osservava un procuratore siracusano.

Il litorale industriale siracusano è un susseguirsi di impianti di raffinazione, aziende chimiche per fornire i prodotti necessari alla lavorazione del greggio, centrali elettriche per il fabbisogno di energia e fabbriche di gas per la produzione industriale. Sono state anche innalzate cisterne e costruiti pontili per l’attracco delle superpetroliere e delle navi militari. Viste dal mare, le industrie coprono il paesaggio urbano. Dietro si staglia Melilli, piccolo borgo arroccato fra i monti Iblei.

Se trovi un passaggio fra gli impianti, sprofondi nella desolazione delle aree interstiziali ricoperte di erbacce infestanti e strutture arrugginite. Il polo petrolchimico è sorto negli anni ruggenti del boom economico. Settant’anni dopo, alla vista degli impianti fatiscenti e delle sterpaglie infestanti, si percepisce un’altra atmosfera, quella del declino che in Italia nell’ultimo trentennio non ha risparmiato alcun settore produttivo, eccetto in parte quello automobilistico.