«Cari italiani all’estero, se siamo uniti nessuno potrà ignorare la nostra voce»
Il senso di comunità, il voto, i giovani, le donne, la lingua italiana, la passione e l’impegno. L’intervista a Maria Chiara Prodi, segretaria generale del CGIE.
di Rossana Cacace 29 luglio 2024
Vent’anni passati al servizio degli italiani all’estero. Con questa solida e approfondita esperienza alle spalle, desiderando riuscire a far sentire sempre di più, anche in patria, la voce dei connazionali trasferitisi oltrefrontiera, Maria Chiara Prodi è stata eletta, a metà giugno, alla Segreteria generale dall’Assemblea plenaria del Consiglio Generale degli Italiani all’estero (CGIE). Unica candidata, la professionista di lungo corso ha raggiunto la maggioranza assoluta al primo scrutinio con 35 voti favorevoli, succedendo al compianto Michele Schiavone, scomparso il 30 marzo scorso. Il Corriere dell’ italianità ha incontrato la dottoressa Prodi.
Da poco più di un mese è la nuova Segretaria generale dall’Assemblea plenaria del CGIE. Come si fa a far sentire più forte la voce degli italiani all’estero, che oggi rappresentano il 10% della popolazione italiana?
Innanzitutto vorrei ringraziarvi per questa opportunità di intervista e salutare la comunità svizzera che con la sua vitalità sa non solo animare i territori, ma anche offrire al CGIE e al Parlamento personalità forti che si succedono nel tempo e contribuiscono in maniera determinante a far sentire la voce degli italiani all’estero: so quanto questo possa succedere solo in presenza di una intelligenza e sensibilità diffusa, e di tanto impegno. Desidero cominciare proprio ringraziando tutti voi e i colleghi Consiglieri che in un momento così delicato della storia della nostra Istituzione hanno voluto sostenere la mia candidatura. Per rispondere alla domanda, comincerei innanzitutto col dire che la nostra emigrazione ha raggiunto cifre così impressionanti che è davvero ormai impossibile, per chi è rimasto in patria, cavarsela alzando le spalle e con il famoso detto, «lontano dagli occhi, lontano dal cuore». Giunti a questo punto della storia migratoria italiana, dobbiamo tutti insieme ribaltare la prospettiva e cominciare a dire: se non ci ascoltate siete voi a dovervi giustificare, non noi a dover gridare più forte. Non possiamo negare però che ha un fondo di verità anche il detto «non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire», e renderci conto che a volte la nostra voce viene soffocata perché fare i conti con i nodi che noi portiamo al pettine non è facile. Se ci chiediamo «cosa diciamo al nostro Paese che il nostro Paese non vuole sentirsi dire?» credo che a ciascuno di noi possa venire in mente una lista bella lunga. Allora io vorrei ripartire, per così dire, dai fondamentali. Proprio all’inizio, la nostra legge istitutiva recita: «Il CGIE è l’organismo di rappresentanza delle comunità italiane all’estero presso tutti gli organismi che pongono in essere politiche che interessano le comunità all’estero». Ho scritto in corsivo le due parole su cui desidero attirare la vostra attenzione. «Comunità». Dobbiamo dire a tutti gli italiani che incontriamo che la nostra voce si sente meglio, se formiamo delle comunità. Stringiamoci attorno alle nostre associazioni, votiamo e candidiamoci per i Comites, creiamo tutti i gruppi on line e off line che desideriamo, parliamo della nostra condizione di emigranti nelle nostre reti di amici. Crediamoci davvero, che «l’unione fa la forza». «Tutti». Siamo certi che la nostra voce arriva, presso tutti gli organismi che pongono in essere politiche che interessano le comunità all’estero? Nella mia ventennale esperienza al servizio degli italiani all’estero ho trovato moltissime orecchie attente nelle regioni, nei comuni, negli assessorati all’internazionalizzazione, ai giovani, alle start up, e non passa giorno in cui non mi dica che potremmo interessare anche questo o quell’organismo che ancora non ci conosce. Insomma, la nostra voce si sentirà meglio e più forte non se la Segretaria Generale urlerà più forte, ma se sapremo da un lato unirci in comunità che possano essere rappresentate efficacemente, dall’altra, senza negare le criticità che ci hanno portato all’emigrazione e quelle di cui siamo vittime nei tanti disservizi e nelle tante difficoltà, se sapremo rappresentare al nostro Paese la rete incredibile di talenti e di opportunità che siamo.
Gli italiani all’estero si sentono in genere molto penalizzati per la questione del voto. Per esempio per partecipare all’elezione dei membri del Parlamento europeo nel giugno scorso, gli italiani in Svizzera sono stati costretti a tornare presso il Comune di iscrizione elettorale in Italia, sobbarcandosi le spese del viaggio. In redazione sono arrivate molte mail di protesta a tal proposito. Cosa si può e si deve fare?
Il tema della partecipazione in mobilità è per me il centro di tutto. Ci sentiamo depressi perché la gente non va a votare, temiamo per le nostre democrazie fragili, abbiamo interrogativi pressanti sul futuro dell’Unione Europa di cui siamo tutti cittadini, in quanto italiani, ovunque sia la nostra residenza. Ma continuiamo a guardare al rubinetto dove secondo noi non scende più una goccia di energia politica, e pensiamo che sia esaurita. Ma se fosse invece che la sorgente è sempre attiva, che gli esseri umani restano animali politici e aspirano ad un vivere insieme migliore, ma semplicemente le «tubature» che collegano la sorgente al rubinetto perdono, o vanno cambiate, o modificate nell’inclinazione? C’è la tubatura del diritto di voto: si fa presto a dire «astensionista», ma se ad una comunità togli il 10% della popolazione alle amministrative perché bisognerebbe tornare,efaivotareognialtraelezionein un modo diverso confondendo anche i più motivati, te lo puoi chiedere se non c’è una maniera migliore di fare le cose? C’è la tubatura di come è strutturata la legge che governa le elezioni europee: siamo sicuri che la libertà di scelta di votare per candidati del paese di residenza o di provenienza, sia una libertà che vogliamo ancora pagarci? Che abbia ancora senso? Non potremmo avere liste transnazionali, molto più aderenti alla vita dei milioni di europei che vivono in un paese diverso da quello di nascita? Non potremmo arrivare ad avere delle vere famiglie politiche europee, per rendere molto più evidente che si deve agire con un solo spirito, perché abbiamo come orizzonte il mondo intero e non il nostro orticello? La sorgente della frustrazione di quando si arriva al giorno del voto e si capisce che non si può votare, zampilla. Dobbiamo organizzarci per darle delle tubature appropriate perché quel sentimento si trasformi in cambiamento.
Che cosa intende fare per la promozione della lingua e della cultura italiana all’estero?
Voglio trovare, insieme ai miei colleghi, gli argomenti giusti per far capire che abbiamo la fortuna di poggiare su un patrimonio infinito sia linguistico che culturale, che è un vero patrimonio dell’umanità e deve essere reso disponibile a qualsiasi latitudine. Io vivo in Francia, un paese che investe in cultura sapendo che non è una spesa, è proprio un investimento. Anche Germania e Spagna sono molto attenti. Siamo nel G7, siamo una potenza economica europea e mondiale, e veramente non riusciamo ad investire più soldi, per esempio, nell’insegnamento della lingua italiana, a fronte di una domanda in costante crescita? Ma non è solo una questione di ammontare di investimenti, anche la strategia di accompagnamento agli attori culturali è fondamentale. Rimettere in causa ogni anno i finanziamenti, anche per attività che sono strutturalmente pluriennali, è uno spreco di energie e di intelligenza che dovrebbe essere evitato. Siamo poi in un momento veramente delicato per gli enti gestori di tutto il mondo: insieme alla mia stima infinita per tutte le persone che danno l’anima per mantenere vivo il contatto dei nostri bambini con la lingua e la cultura del loro paese di origine, io mi chiedo: ma davvero dobbiamo basarci sugli eroismi individuali per rispondere ad un nostro diritto? È una cosa degna? E di fronte all’enorme tema demografico in Italia, non sarebbe intelligente raddoppiare la cura nei confronti dei nostri figli all’estero, che magari tra quindici anni saranno l’unica speranza degli atenei italiani senza più giovani, ma solo a condizione che qualcuno gli abbia insegnato la lingua?
Che quadro può descriverci in merito ai migranti appartenenti alla Gen Z di oggi? Quali sono le loro aspirazioni e quali le loro paure e difficoltà? Che differenze si riscontrano tra i giovani contemporanei che si trasferiscono all’estero per studio/lavoro e quelli delle generazioni passate?
Ho la fortuna di occuparmi di giovani per mestiere, perché dirigo la bellissima residenza universitaria italiana a Parigi, la Maison de l’Italie. Anzi, più che una fortuna è una scelta d’amore, scaturita dall’organizzazione, nel 2019, del Seminario di Palermo, dove come CGIE riunimmo 115 ragazzi da tutto il mondo. È stata un’esperienza che mi ha trasformato, e ho lasciato la mia carriera nel mondo dell’organizzazione dello spettacolo per mettermi al servizio dei nostri giovani. Consegniamo loro un mondo difficile, e loro hanno un mix di paura e determinazione, condito di spavalderia e un tipo di fermezza sui valori fondamentali quieto ma incrollabile che li rende ai miei occhi davvero affascinanti. Li osservo e li accompagno perché spero che di questo mondo incasinato sappiano trovare loro le chiavi d’uscita, o almeno un modo più umano di conviverci.
Ci dice un suo obiettivo a breve termine, uno a medio termine e uno a lungo termine?
Nel breve termine punto tutto sull’organizzazione interna e sul creare le condizioni per far fiorire i talenti che animano il nostro Consiglio. Le leggi istitutive di Comites e CGIE non impongono un modo di interfacciarsi e collaborare, rispettosamente considerando che siamo tutti volontari e le modalità devono potersi adattare a noi, non essere coercitive. Ma io ci vedo come una squadra di sette milioni di persone sparse in ogni angolo della terra, più di millecinquecento volontari Comites nel mondo, sessantatré consiglieri CGIE, dodici parlamentari, senza contare le consulte regionali, le associazioni, e tutti quelli che vogliono darci una mano nelle istituzioni locali di ciascun paese e in Italia. Il medio e lungo periodo li vedo come un concatenarsi di schemi di gioco che allargano sempre più il cerchio per rendere efficaci le infrastrutture di partecipazione che permettono a ciascun cittadino italiano di poter partecipare, sentirsi tutt’uno con il paese che ha lasciato e attrezzato per portarne uno spicchio più o meno grande nel paese d’adozione. Ecco, penso che il mio obiettivo di vita sia quello di aumentare significativamente il campo di chi con gioia si impegna in politica. Perché fare politica è organizzare la speranza, ed è davvero una bella cosa. L’italianità che si intreccia con tutti i popoli e i paesi del mondo è insieme metodo e contenuto per la costruzione di un mondo migliore”.
Dopo la sua elezione a Segretaria del CGIE, molti hanno sottolineato che lei è la prima donna a ricoprire tale ruolo. Secondo lei ci vorrà ancora molto tempo affinché una donna in un ruolo dirigenziale non faccia più notizia? No, anzi, trovo che già siano pochi quelli che hanno voluto rimarcarlo e penso siano state più le donne impegnate nelle nostre reti dell’emigrazione, sollevate all’idea di potersi riconoscere in una figura apicale in seno al CGIE, che non giornalisti o personalità interessate a cavalcare una moda. Però come politica a me interessa più l’ordinarietà della parità che la straordinarietà di un singolo percorso. Il Signor Presidente del Consiglio Meloni non ci ha dato una mano, quando sulle venti nomine governative ne ha consegnate 19 a uomini e una ad una donna, ma anche sui quarantatré consiglieri eletti, i nostri territori hanno suggellato evidenti disparità. Al momento siamo dieci donne su sessantatré, e nel mandato precedente la situazione era equivalente. Allora forza, donne. Costruire un mondo più inclusivo e felice ha bisogno del nostro luminoso impegno!”.
Succede a Michele Schiavone, scomparso lo scorso 30 marzo. Che ricordo ha di lui e per cosa vorrebbe dirgli “grazie”?
Innanzitutto non gli direi grazie, ma «grazie assai», anzi «graziassai» tutto attaccato. La sua generosità è stata proverbiale, incontenibile, e devo dire che proprio questa sua caratteristica l’ha fatto amare da tutti, anche da chi era distante dalle sue idee. Poi era paziente. Non si negava mai al telefono e non riattaccava finché non era sicuro che la conversazione non fosse realmente finita. In tanti contesti dell’emigrazione ho potuto crescere accanto a lui, da che ho memoria. E sono stata davvero felice di partecipare al suo ultimo saluto, perché non avevo mai avuto l’opportunità di conoscere la sua famiglia. Dico proprio felice, perché è stato un estremo saluto, ma pieno di amore, di riconoscenza, così tanto pieno, che si parte con la gratitudine più che con la nostalgia. E in questi giorni seguire sui social suo figlio Yanek che viaggia in bici sulle tracce del papà è di una grande dolcezza. È l’immagine del futuro che vogliamo costruire, con compostezza, determinazione, e tanto amore per l’Italia e per un mondo tutto da costruire, senza lasciare indietro nessuno. Questo nuovo capitolo del CGIE, che si è aperto senza la sua presenza fisica, è stato sicuramente tenuto a battesimo dal senso di responsabilità di ciascuno di noi nei confronti della sua eredità morale. Davvero il minuto di silenzio che abbiamo osservato per lui ha permesso a tutti quanti di mettere all’unisono i nostri cuori. Anche per questo piccolo miracolo, Michele, «graziassai!».