La Berlinale si riconferma un festival d’impegno politico e sociale. Quale direzione prenderà in futuro?
La cineasta Mati Diop vince l'Orso d'Oro per il miglior film con il lungometraggio Dahomey. Il cambio di guida, le critiche, i premi, la partecipazione della Svizzera e tanto altro.
di Antonella Montesi inviata a Berlino 28 febbraio 2024
Dal 15 al 25 febbraio a Berlino si è tenuta la Berlinale. Il festival del cinema, uno dei più importanti al mondo, il prossimo anno festeggerà il 75esimo compleanno sotto la guida di una nuova direttrice, l’americana Tricia Tuttle. Quest’anno, infatti, è stata l’ultima edizione guidata dal duo composto dall’italiano Carlo Chatrian, già attivo ai festival di Cannes e di Locarno, e dalla produttrice cinematografica olandese naturalizzata tedesca Mariette Rissenbeek.
Molte le critiche rivolte alla kermesse appena conclusa, in primis per la scelta dei film, poi per la premiazione: sia per i film vincitori, che per le modalità della cerimonia che si è svolta, come di consueto, al Berlinale Palast, nella Potsdamer Platz, ricostruita dopo la caduta del Muro da vari architetti di fama internazionale, tra cui il nostro Renzo Piano. Le critiche sono arrivate perché i film -sia quelli in concorso, sia quelli nelle sezioni laterali-, hanno avuto più un carattere di impegno politico che meramente filmico, e la premiazione ha rispecchiato questo approccio.
La giuria che ha premiato i film in concorso, presieduta da Lupita Nyong’o, fascinosa attrice, regista, produttrice e autrice (tra l’altro interprete di Black Panther: Wakanda Forever, 2022), ha conferito riconoscimenti che hanno fatto discutere - per il palmarès completo si veda il link a fine articolo - primo fra tutti l’Orso d’oro per il miglior film andato alla cineasta francese di origini senegalesi Mati Diop per Dahomey, documentario sulla restituzione delle statue trafugate dai francesi nel XIX secolo in quello che era il Regno di Dahomey e riconsegnate - solo 26 su migliaia - a quello che oggi è il Benin.
La giuria, di cui faceva parte anche l’attrice italiana Jasmine Trinca, ha guardato alla creatività femminile, all’Africa, a un film che parla di colonialismo, di identità, di ricostruzione. Miglior attore protagonista è Sebastian Stan, per A different man, la storia di un uomo con un viso deturpato, mentre il premio come miglior attore in un ruolo secondario è andato alla sempre brava Emily Watson in Small Things Like These. Da anni la Berlinale ha abolito la divisione tra ruoli maschili e femminili.
Proprio la modalità in cui si è svolta la premiazione, ma anche episodi che si sono verificati nel corso dell’evento, che dura dieci giorni, hanno suscitato disapprovazione. Molti tra i premiati si sono schierati a favore del popolo palestinese, della striscia di Gaza occupata e hanno invocato il cessate il fuoco. Il regista Ben Russell e altri artisti sono saliti sul palco della cerimonia di premiazione con la kefiah (copricapo tradizionale della cultura araba e mediorientale, diventato simbolo del patriottismo palestinese) ben in vista.
Il direttore del quotidiano berlinese Tagesspiegel ha riassunto tale atteggiamento in una lettera aperta, in cui ha definito la cerimonia “vergognosa e unilaterale”, senza un accenno all’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas e senza una equa rappresentanza delle parti coinvolte.
Il regista Christian Petzold, anche membro della giuria, ha dichiarato che è forte il bisogno di riequilibrare le tendenze e di rimettere il cinema al centro delle attenzioni. “Sarebbe bello tornare a partecipare a un festival dove il cinema sia di nuovo in primo piano e non solo l’impegno politico”, così Petzold.
La Berlinale è davvero diventata vittima di quello che era un suo punto di forza: i film, voce critica della realtà vissuta, sono diventati avulsi dalla sensibilità meramente filmica. Sono pellicole che, una volta uscite dal festival, non finiscono in sala oppure ci riescono solo raramente, perché troppo lontane dal pubblico generalista, e perché non piacciono neanche più ai cinefili in quanto non mettono il cinema al primo posto (ad esempio, il premio per la miglior regia è andato a un documentario sull’ippopotamo del narcotrafficante Pablo Escobar, che aveva introdotto ippopotami in Colombia, causando un disequilibrio nella fauna locale; il film si chiama Pepe, come l’animale).
Vedremo ora cosa succederà con la direzione della neo-designata Tricia Tuttle: compito non facile il suo, nonostante la sua esperienza quasi trentennale. La Berlinale non è un ambiente facile e soprattutto non è facile succedere a una gestione lunga, brevemente intervallata da quella uscente, di successo e ben accolta come è stata quella di Dieter Kosslick, il carismatico direttore tedesco che per diciotto anni, dal 2001 al 2019, ha guidato la manifestazione con grande successo e soprattutto con grande approvazione, sia da parte delle autorità politiche, che del pubblico.
La naturale predisposizione di Kosslick per sponsor e glamour, con inviti di star internazionali, che hanno fatto del red carpet un vero momento di gloria – memorabile l’arrivo della star di Bollywwod Shah Rukh Kahn nel 2008 – e l’acquisizione di partner sempre più importanti e ricchi, come Giorgio Armani e L’Orèal – sono state le sue carte vincenti, mentre sembra che la direzione uscente, in particolare il direttore artistico Chatrian, raffinato intellettuale e cinefilo, non fosse particolarmente interessata e da qui deriverebbe anche una parte dell’insuccesso.
Quest’anno la Svizzera non ha avuto, come negli altri anni, film propri, ma è stata presente con varie coproduzioni. Una di queste merita una particolare menzione: Gloria, film d’esordio della giovane regista Margherita Vicario. Una storia ambientata nella Venezia dell’800 e più propriamente in un orfanatrofio della campagna veneta, dove le ragazze orfane venivano introdotte alla musica. La Vicario si prende grandi licenze poetiche e storiche, mischia classico e pop, sacro e profano e il risultato è un film corale piacevolissimo da vedere, con costumi, scenografie e musica godibilissimi. La regista è figlia e nipote d’arte, il padre è il regista Francesco Vicario, figlio dell’attrice Rossana Podestà e del regista Mario, e si vede che il cinema lo ha respirato da sempre. Film da vedere e da godere, un’eccezione in questa cupa Berlinale.
Non da ultimo va menzionato il contesto di questo festival, Berlino. Una città sempre in divenire e tanto variegata nei quartieri diversissimi tra loro. I tanti addetti ai lavori della kermesse, provenienti da tutto il mondo, li trovi poi a scoprire un’opera d’arte all’isola dei Musei o a fare un giro al grande magazzino KaDeWe, il cui futuro attualmente è incerto, perché vittima di speculazioni immobiliari, o in uno dei tanti locali storici, come il Paris Bar, già roccaforte della scena culturale berlinese o al Borchard, storico locale frequentato allora da Bismarck.
Berlinale e Berlino vivono davvero in un unico afflato, e l’una gode e si nutre della vitalità e degli stimoli dell’altra. Per il palmàres completo cliccare QUI