Il vero volto e le mille facce dell’italianità

Multiforme, scivolosa per chi tenta di darle un’interpretazione univoca, la nozione d’italianità è rimasta negli ultimi decenni intrappolata in quella di identità nazionale. Per noi, ma non solo, rimane un concetto transnazionale che cammina sulle gambe di chi parla italiano, in patria e nel mondo, veicolando un patrimonio di cultura e civiltà.

Di Fabio Lo Verso 24 gennaio 2025

 

«Ventenne, non mi ero mai chiesto cosa c’entrasse l’italianità con la politica, ma nel giro di un paio d’anni non posso evitare di farlo», racconta Christian Raimo nel saggio Contro l’identità italiana (Einaudi, 2019). Classe 1975, il giornalista, scrittore e insegnante di storia e filosofia in un liceo italiano, viaggia a ritroso nel tempo della sua gioventù per cogliere un personale riscontro fra il concetto di italianità e l’uso che ne faranno i partiti nati dalle ceneri della prima Repubblica. Un uso che contribuirà alla veste retorica di un’altra espressione, l’identità nazionale.

Mai forse da quel momento, dalla concitata stagione post Tangentopoli, si è così tanto scritto e discusso di italianità, una nozione che ha probabilmente assunto più significati, a volte distorti, di quanti ne potesse ammettere. Il merito di Raimo nel 2019 è di aver illustrato il modo in cui, dalla scesa in campo di Silvio Berlusconi, il concetto di italianità è via via rimasto intrappolato in quello di identità, sfilando infine «nel vicolo cieco del nazionalismo muscolare» di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Con un unico referente geografico, l’Italia, e gli occhi chiusi sull’estesa, ampia italianità vissuta, difesa e promossa fuori dai confini nazionali.

A spezzare l’incantesimo autoreferenziale è arrivato un libro pubblicato nel 2023 in Svizzera, dal titolo Italianità plurale. Analisi e prospettive elvetiche (Armando Dadò Editore, Locarno). Il cui merito è invece di rammentare che «il termine di italianità ha cominciato ad essere usato in Ticino dalla fine del XIX secolo». Così ha esordito lo storico Marco Marcacci, alla presentazione del volume, lo scorso 11 dicembre a Ginevra, di cui è uno dei curatori, con Rosita Fibbi (presente a Ginevra) e Nelly Valsangiacomo: «Esiste una specificità elvetica, sotto la forma di difesa di un’italianità che si riteneva minacciata dall’influenza germanica, da quegli svizzeri tedeschi che nel cantone italofono erano percepiti come un corpo estraneo, persone che non volevano integrarsi, avevano aperto le loro scuole, creato le loro associazioni, costituito i loro cori musicali e persino i loro organi di stampa».

Il concetto di italianità sorge dunque in Ticino, «ma presto il termine è controverso e diviene oggetto di polemica», spiega Marcacci, «perché la difesa dell’italianità è associata a rivendicazioni o tentativi di irredentismo al nord delle Alpi». Il rigetto è più evidente quando il fascismo con Mussolini si presenta come «garante dell’italianità» nelle regioni italofone della Svizzera: il Ticino e quattro valli dei Grigioni. Dopo la guerra, si è posto un altro problema, prosegue Marcacci: qual è l’italianità di questi territori? Com’è cambiato il senso di appartenenza all’italianità della Svizzera italiana?

 
 

La questione oggi si intreccia con la definizione stessa di italianità, «che non è appartenenza a una nazione», dichiara Rosita Fibbi, ricercatrice associata al Forum svizzero per lo studio delle migrazioni dell’Università di Neuchâtel, «ma è un concetto transnazionale». Cammina cioè con le gambe degli oltre sei milioni di italiani all’estero, dei circa quattrocentomila ticinesi e grigionesi italofoni, e di tutti gli italofoni nel mondo.

«Un concetto transnazionale», ribadisce Fibbi, «veicolato da una lingua, l’italiano, a vocazione a suo modo globale». «L’italianità», afferma la ricercatrice, «è la partecipazione a un patrimonio di cultura e civiltà prodotto dai locutori di lingua italiana». Un patrimonio che si esprime attraverso «un incrocio di esperienze diverse, di riferimenti culturali condivisi che creano un senso di familiarità».

La Svizzera è un «formidabile laboratorio» di questo concetto multiforme, scrivono nella locandina gli organizzatori dell’evento dell’11 dicembre, «e l’italianità nelle sue varie sfaccettature non è l’ultimo degli elementi che contribuiscono a saldare la complessa identità elvetica». Il tocco finale è dato dalla stessa Rosita Fibbi, che formula quasi un avvertimento contro chi «pretende dissociare l’italianità in identità totalizzanti per gli individui che si riconoscono in essa».

L’«appropriazione politica» della nozione d’italianità negli ultimi decenni è servita a scavare il terreno e piantare le radici per il sovranismo di matrice leghista e il nazionalismo di stampo meloniano. La storia è una successione di acrobazie propagandiste. Dapprima, nel 1996, Umberto Bossi glorifica la mitologia dei Celti «per inventarsi la tradizione di un popolo vessato dalla dominazione straniera, i Padani», osserva Raimo.

Il senatur compie l’azzardo di creare un clima di assedio, in cui i meridionali, eterodiretti da «Roma ladrona», spoliano un immaginario popolo padano. Più tardi, il figlio spirituale Matteo Salvini spoglia l’identità padana e la riveste con quella italiana, fa coincidere i confini padani con quelli dell’Italia, che diviene a sua volta una patria vessata da ben altra dominazione straniera, europea e atlantista, e assediata da orde di migranti. Infine si torna all’impulso primordiale di spaccare in due la patria Italia, separando il Nord dal Sud.

 
 

Il discorso fondatore del separatismo leghista, proclamato a Pontida nel 1996, arriva due anni dopo quello di Berlusconi, ma il Cavaliere aveva già puntato tutto sull’Italia. «L’Italia è il paese che amo», affermava il padre di Forza Italia, «qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti». Da allora la parola italianità si carica di ogni tipo di significato, rimandando a un preteso carattere nazionale che il già primo ministro metteva in scena sulla carta patinata di Una storia italiana, l’opuscolo agiografico distribuito a tutte le famiglie del Paese alla vigilia delle elezioni politiche del 2001.

Si apre allora un ciclo di retorica sui caratteri dell’identità nazionale, da cui scaturisce un’antologia di figure funzionali a un uso politico sempre «teso a legittimare un riscatto», indica Raimo: il patriota difensore grintoso dei confini nazionali, il virilista nostalgico, l’identitario livoroso, l’accanito promotore del Made in Italy. Personificazioni che generano un nazionalismo banale, per dirla con Michael Billig, maestro della psicologia sociale, «un nazionalismo talmente banale da essere stereotipico», conclude Raimo.

Nei fatti il berlusconismo «ha avuto il discutibile merito di sdoganare pubblicamente i vizi nazionali, sino a farne ragione di vanto patriotico», scrive nel 2006 Curzio Maltese, fu giornalista e editorialista di Repubblica, fra i critici più acuti del regno del Cavaliere. Nel 2010, con il libro Italianità (Laterza, Bari), Silvana Patriarca evidenzia due squarci nella mappa concettuale del carattere nazionale: «è un’idea che personifica e quindi reifica una collettività, non tiene conto delle importanti differenze a livello individuale e di gruppo presenti in tutte le società, e incoraggia la pigrizia intellettuale dando per scontati gli stereotipi presenti».

In quegli anni la critica storico-culturale sforna altri volumi. Lo storico Alberto Mario Banti nel 2011 pubblica Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo (Laterza), in cui illustra come dal Risorgimento la struttura del discorso nazionale resterà identica, cambieranno solo i contesti e le forme di governo. Tre anni dopo, in Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana (Carocci, 2014), il ricercatore Matteo Di Gesù ribadisce come «l’invenzione dell’identità sia sempre stata giocata sul vittimismo».

 
 

Con i suoi vizi, stereotipi, schemi ricorrenti, e i connotati di una propaganda in cui gli aspetti mitici prevalgono su quelli storici, il tema dell’identità nazionale è pervenuto nel discorso politico a fagocitare quello dell’italianità. Nella stampa nazionale si è imposto un riflesso condizionato: consiste a far coincidere l’italianità con i soli esponenti del nazionalismo e sovranismo, come fosse un dominio riservato. Così nel dibattito che si è acceso sul tema della cittadinanza, il quotidiano Repubblica, uno dei più più letti in Italia, scrive nello scorso ottobre: «Può darsi che Antonio Tajani riesca laddove tanti decenni di storicismo crociano hanno fallito e cioè a definire l’esprit dell’italiano medio. L’italianità».

Ora la trasformazione di un concetto nobile, generoso e inclusivo, com’è l’italianità, in un termine esclusivo, vincolato a un’ideologia autoreferenziale, obbliga questo giornale, che da Corriere degli italiani nel 2021 è divenuto Corriere dell’italianità, a rievocare i motivi di questa scelta e dissipare, ove necessario, ogni dubbio. Sostituendo la parola italianità a italiani si è voluto spiccare un salto in direzione di «tutti» i locutori della lingua di Dante, ovunque essi siano, con o senza un passaporto italiano.

Con internet questo giornale è divenuto un luogo di approdo al patrimonio di cultura e civiltà che unisce gli italofoni, italiani e non italiani, in tutto il mondo. Era dunque ora che questa vocazione venisse declamata nel nostro frontespizio. L’italianità di cui siamo un mezzo di informazione batte sì nel cuore pulsante della nostra precipua realtà italo-svizzera, ma oltrepassa ogni confine nazionale. È transnazionale, ed è questo il suo autentico volto.

 
Corriere dell’italianità


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