Quando la mafia torna sugli schermi

di Fabio Lo Verso direttore 24 marzo 2025

Mauro Rostagno era un eroe civile, un inflessibile umanista, cultore della libertà a tutto tondo. Con la sua morte, per mano della mafia nel 1988, è svanita una certa idea di innocenza e di bontà, quell’idealismo puro e fecondo con al centro tutti noi, uomini e donne che aspiriamo alla verità e al bene, valori sommersi sotto le favole nere della propaganda di ogni tipo.

Nell’Italietta di oggi, società del presente perpetuo, dove la memoria è labile, inesistente, il ricordo del cittadino Rostagno ora rivive nel documentario di Roberto Saviano dal titolo L’uomo che voleva cambiare il mondo. Ma quel mondo è rimasto lo stesso, e se le pallottole mafiose si sparano con altre pistole, invisibili, avvolte nel silenziatore della politica, è pur sempre un atto rivoluzionario far tornare la mafia sugli schermi.

Roberto Saviano, nel suo tormentato ruolo di accusatore della mafiosità che pervade il tessuto sociale, ci ricorda che non c’è difesa contro l’illegalità che fa massa, fa numero e si estende in un arco ora sempre più ampio, compreso fra chi spara, e chi chiude gli occhi. Chi prova invece ad aprirli, ad agire secondo coscienza, denunciando collusioni e malaffare, paga un prezzo altissimo.

Mauro Rostagno è stato ucciso perché puntava il dito su chi, quel mondo, non voleva spostarlo di un solo centimetro. La mafia è stata, e continua ad essere, il potere più conservatore e reazionario. Ha capovolto il potenziale dinamismo della società del Sud Italia nel suo opposto, nella paralisi delle volontà, nello spegnimento delle menti, che si accendono con la scintilla della paura, per nascondere subito la testa sotto la sabbia.

La politica negli ultimi anni ha avuto più di una responsabilità nell’aver derubricato la questione mafiosa a fenomeno sociale con cui dover convivere, insomma nell’aver dato una mano, o tutte e due come Andreotti e Berlusconi, al sistema di potere più tossico e deleterio del mondo democratico.

«E voi che fate? Non avete capito che tutto questo vi riguarda?», urlava Mauro Rostagno a metà degli anni ’80 ai microfoni di Radio Tele Cine, dove lavorava come giornalista. È stato ammazzato a 46 anni, perché «parlava troppo». Per la mafia è un peccato senza assoluzione alcuna, lo stesso che però è stato commesso da chi ha perfidamente accusato, parlando davvero troppo, la sua compagna Chicca Roveri, arrestata con altri sei appartenenti alla comunità Saman, fondata da Rostagno vicino a Trapani.

La «macchina del fango», il marchingegno che fra tutti funziona meglio in Italia, sbatteva il «mostro» in prima pagina, ricorda Saviano, facendo sorgere il sospetto sul giornalista e i suoi affetti. «Chiediamo scusa a Rostagno», dichiara l’autore nell’incipit del suo documentario, sbattendo ora sugli schermi la mostruosità della mafia e dei suoi servitori. Nella luce televisiva appaiono arcaici, tetri, orripilanti e perdenti.

 
Corriere dell’italianità


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