Il lento crepuscolo dell’industria italiana

La manifattura subisce una flessione della produzione per il diciottesimo mese consecutivo. Il settore auto cede il 35% su base annua, il tessile per l’abbigliamento registra un calo del 18%.

Di Guido Gozzano 21 ottobre 2024

 

Nel tranquillo autunno 2019, quando ancora il covid non era apparso nel Paese, Confindustria diramava una nota a preoccupante: «L’economia italiana è ferma: l’industria è in affanno, i servizi solo in lieve recupero, gli investimenti in calo». La potente associazione degli industriali italiani paventava inoltre uno stop dell’export a causa della flessione degli scambi mondiali e della «Germania in panne».

Cinque anni più tardi, e una pandemia alle spalle, si ripresenta lo stesso scenario. La Germania è in recessione, e l’industria italiana rimane alle prese con il calo della produzione, i maggiori costi energetici e «tante altre grane», avverte Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison nonché docente di Economia industriale e Commercio estero all’Università Cattolica, in una lunga intervista al sito industriaitaliana.it

«Non mi aspetto dati positivi per la manifattura italiana nel 2024 e nemmeno nel 2025. La produzione industriale non può crescere perché siamo in un contesto di crisi, la domanda dei nostri principali mercati di sbocco, la Germania e la Cina, sono in drammatico rallentamento», dichiara Fortis dipingendo un quadro a tinte fosche. Subito dopo, però, afferma: «Ma nel complesso l’Italia è in grado di difendere la sua posizione di mercato, già nel medio periodo ne uscirà a testa alta».

Dati Istat testardamente negativi

Sarà vero? Lo stesso sito industriaitaliana.it non crede nelle previsioni del noto docente dell’Università Cattolica. Gli ultimi dati della produzione industriale, pubblicati dall’Istat nello scorso luglio, rilevano un calo del 0,9%, per il diciottesimo mese consecutivo. Auto e settore del lusso sono tra i più colpiti, con una flessione rispettivamente del 35% e 18%. «Il futuro non è roseo, come sostiene Fortis», commentano allora gli autori dell’intervista.

Pur contestualizzando i dati nella più ampia crisi europea e globale, con la Germania che soffre più dell’Italia e una Cina indebolita che cresce di gran lunga meno rispetto al passato, l’industria italiana è in grande affanno. La fase negativa dura da troppo tempo perché si speri un capovolgimento di situazione. L’unica eccezione positiva è quella dell’energia «che contribuisce a rendere meno pesante la media negativa», indica il Sole 24 Ore.

Pesa la crisi epocale dell’industria automotive, che per decenni ha fatto crescere le economie dei grandi Paesi europei. In Italia, sottolinea il giornale di Confindustria, lo stallo è dovuto fra le altre cose «all’effetto delle frenate produttive e le casse integrazioni di Stellantis». In Germania il rallentamento è invece determinato in parte dal dieselgate ma soprattutto dagli errori strategici nel comparto dei veicoli a trazione elettrica. Nel resto del continente è soprattutto la politica green europea a mettere in ginocchio l’intero settore.

Flessioni ampie si registrano anche nel tessile per l’abbigliamento, «il comparto peggiore dei primi sette mesi dell’anno, in calo di quasi 11 punti tra gennaio e luglio», nota il Sole 24 Ore. Su base annua il settore cede il 18%. Il confronto con Francia e Germania mostra che la frenata industriale non è soltanto italiana. Ma è una consolazione effimera, se si considera che in Italia le previsioni di crescita non consentiranno di bilanciare il gap pregresso. Fra i settori in leggera crescita, permangono soltanto il comparto chimico (+3,9) e dell’industria alimentare, bevande e tabacco (+2,5%), con in coda quello della fornitura di energia elettrica (+1,9).

Dubbi su peltrolchimico e siderurgia

Tra i nodi futuri c’è da risolvere quello dell’industria petrolchimica, in relativa buona salute ma in fase di arretramento per via della politica green europea. In Italia diversi siti di raffinazione del petrolio si sono convertiti o si stanno convertendo in bioraffinerie. Qualche anno fa il petrolchimico di Porto Marghera e quello di Gela, oggi quello di Livorno, che ha avviato i lavori lo scorso 14 ottobre. I nuovi impianti saranno pronti a fine 2026.

Rimane attivo il polo petrolchimico di Siracusa, il secondo in Europa per capacità di produzione dopo quello di Rotterdam. Ma qui gli interessi italiani sono ridotti al lumicino. A Siracusa il colosso Eni si è confinato nel residuo comparto della chimica, dopo aver per anni dominato in quello del petrolio. Negli anni il polo di Siracusa è via via passato nelle mani di gruppi americani, tedeschi, poi sudafricani, algerini, russi e oggi ciprioti con capitali israeliani.

In ultimo la crisi preoccupa anche il settore della siderurgia. A Taranto non c’è pace per l’ex Ilva, dal 2017 proprietà dei franco-indiani ArcelorMittal, oggi in vendita. Il bando è stato pubblicato a luglio ma non si è ancora concluso l’iter. Qualche giorno fa le associazioni di categoria e delle imprese dell’indotto hanno chiesto «un piano industriale degno di questo nome, capace di coniugare il fabbisogno di acciaio in Italia».

Sulla più importante fabbrica siderurgica in Italia è sospesa una spada di Damocle. Ieri la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone era a Taranto per un punto stampa. «È prematuro fare un’analisi di quelle che possono essere le offerte presentate dai potenziali acquirenti», ha dichiarato. Intanto si teme una vendita-spezzatino con conseguenze per i lavoratori.

La crisi della siderurgia colpisce anche le acciaierie di Terni, passate nel 2022 dal tedesco ThyssenKrupp al gruppo italiano Arvedi. A fine settembre l’azienda ha deciso di fermare uno dei due forni elettrici dell’acciaieria a causa dei costi energetici «insostenibili». Nei giorni scorsi il ministro dell’Industria Adolfo Urso si è recato sul sito siderurgico umbro. Ma la visita non ha dissipato i dubbi e le incertezze sulle prospettive industriali di Acciai Special Terni.

 
Corriere dell’italianità


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