La grande regressione
Di Fabio Lo Verso direttore
Quello che di sicuro si è perso, con la generazione dei Bossi, Calderoli e Salvini, è il senso di un destino comune. Con la «dichiarazione di indipendenza e sovranità della Padania», in quel surreale 15 settembre 1996 a Pontida, la storia d’Italia ha fatto un salto all’indietro. Da allora l’isteria dei leghisti ha permeato la politica italiana, è giunta più volte al governo, oggi ha ottenuto la frammentazione costituzionale del Paese.
Nella legge sull’autonomia differenziata, varata in estate e subito denominata «Spacca Italia», c’è tutto l’arsenale reazionario mascherato di modernismo delle destre che hanno governato il Paese, da Forza Italia a Fratelli d’Italia.
È il punto di arrivo della grande regressione iniziata con il raduno di Pontida e i governi berlusconiani, complici sdoganatori del dogma leghista. La Repubblica «una e indivisibile», sancita dalla Costituzione, nazione benestante e democratica, ottava potenza mondiale, è scivolata nell’Italietta di questi anni, in preda a disturbi da ansia separatista.
Nel giorno della legge «Spacca Italia», i festeggiamenti della Lega in Veneto, con Matteo Salvini a sventolare il vessillo della Serenissima sul palco insieme al governatore Luca Zaia, riportavano alla luce una verità sommersa dalla propaganda: alla Lega non può bastare né il federalismo di tipo svizzero, tedesco o statunitense, ma solo una secessione.
Oggi il trionfo del separatismo leghista, anticamera di una dissoluzione nazionale, coincide paradossalmente con il trionfo del nazionalismo compatto di Meloni e Fratelli d’Italia. Nell’allucinazione collettiva si dissolvono i confini fra due idee estreme del Paese.
Il referendum abrogativo con oltre un milione di firme raccolte dal Sud fino al Nord, è ora lo strumento per cancellare il cupo disegno secessionista. L’alternativa tra un’Italia frammentata e il Paese ante autonomia differenziata, imperfetto ma pur sempre «uno e indivisible», non lascia spazio a dubbi o scrupoli.
La legge scellerata di Calderoli è l’instantanea di un Paese in cui ogni regressione passata ha incoraggiato le regressioni future. Spezzare le catene che da tempo ci stringono in un circolo vizioso è il compito di una generazione politica che tuttora non è apparsa, se non in sparuti deputati, senatori e capi partito virtuosi che guardano al futuro.
Mentre non cambia il sentimento generale del declino che avanza, non c’è forse più bisogno di aspettare le edizioni di Economist per sapere come va davvero l’Italia. Basta contare le vendite di asset strategici nazionali ad aziende estere, in ultimo il gruppo Tim ceduto a un fondo statunitense.
Il Paese è in liquidazione totale, e le conseguenze del vertiginoso debito pubblico, a un passo dai tremila miliardi di euro, appaiono nel monito di Bankitalia: «L’Italia spende per interessi del debito come per tutta l’istruzione». L’ultimo allarmante inventario della grande regressione.