La fumosa partita sovranista in Europa
In un’estate politicamente rovente, la premier Giorgia Meloni si è mossa sullo scacchiere europeo con argomenti distorti e false narrazioni avvolte nel fumo della retorica nazionalista. Ne è uscita perdente, subendo inoltre uno smacco dagli ormai ex alleati dell’estrema destra. Il resoconto della strana stagione dell’Italia meloniana.
Di Guido Gozzano 4 settembre 2024
Non esistono false narrazioni prive di conseguenze. L’amara esperienza, l’ha vissuta Giorgia Meloni nella fosca stagione estiva che si è da poco conclusa, in cui la premier si è cimentata nel recitare argomenti distorti sui meccanismi che reggono l’Unione europea. Con effetto boomerang sono tornati indietro senza colpire il bersaglio. Hanno lasciato l’Europa così come l’hanno trovata. Alla presidente del Consiglio hanno invece tarpato le ali. Rivediamo la sequenza.
Agli inizi di una calda estate va in scena il tormentone politico del «terzo Paese più importante d’Europa», l’Italia di Meloni, «ingiustamente escluso» dalle cariche più prestigiose. Cioè dai cosiddetti quattro ruoli apicali: i vertici della Commissione europea, del Parlamento, del Consiglio europeo e degli Affari esteri. La premier italiana inferocita batte i pugni sul tavolo: «All’Italia ne spetta almeno uno».
Fratelli d’Italia si conferma primo partito italiano in Europa. Ma Giorgia Meloni, alla guida dei Conservatori e riformisti, arriva terza. Vince il Partito popolare di Ursula von der Leyen, al secondo posto i Socialisti democratici. La presidente uscente della Commissione europea incassa l’appoggio dei Verdi e fa due calcoli: «Abbiamo i numeri, anche senza Meloni». Ovvero i numeri necessari per nominare le quattro cariche apicali, ognuna sulla base di maggioranze, coalizioni, accordi programmatici. I numeri, insomma, della democrazia.
Nell’immaginario sovranista nostrano, normalizzato dai social e amplificato nei salotti televisivi, l’Italia «doveva» ottenere un ruolo apicale. Per «diritto sovrano» e contro il responso delle urne: un diritto che le sarebbe stato negato dall’intesa franco-tedesca, «la combriccola del caminetto». Nella vulgata sovranista, è l’asse occulto di comando in Europa. Sui meccanismi democratici dell’Ue cala un «silenzio chirurgico», lamenta il quotidiano Repubblica. Nei talk show e nei telegiornali, figure dell’opposizione e esperti del sistema Europa provano a raddrizzare il quadro storto del sovranismo.
Il tema è affrontato con un diluvio di retorica nazionalista, la pressione diviene insostenibile. Restano in pochi a rammentare ad esempio la regola dello Spitzenkandidat, il candidato leader nominato al vertice della Commissione da una maggioranza parlamentare. La stessa che è servita a confermare Ursula von der Leyen con i voti di 401 eurodeputati a favore, 284 contro e 15 astensioni, che contano come contrari. Lo scrutinio è segreto, ma è apparso subito chiaro che non tutti gli eletti del Partito popolare europeo, dei Socialisti e democratici e di Renew Europe hanno sostenuto la presidente. La democrazia non è un assegno in bianco.
Con lo stesso argomento Giorgia Meloni giustificava il rifiuto di incoronare von der Leyen: «Il mio no a Ursula? Ho agito da leader europeo, non da capo partito». La premier era a Oxford nel giorno in cui «si rincorrevano voci incontrollate», racconta l’inviato di Repubblica, «inclusa quella di una decina di voti regalati dal suo partito a von der Leyen nel segreto dell’urna». Da «leader europeo» il tradimento di un pugno di sodali poteva essere considerato irrilevante; da capo partito è invece uno smacco.
La vicenda si conclude così come era cominciata, con una cortina fumogena innalzata per ingannare l’opinione sull’Ue e sulla solidità della maggioranza di governo, che si era presentata divisa alle elezioni europee. Matteo Salvini voleva meno Europa, anzi come Marine Le Pen distruggere l’Europa da dentro. Antonio Tajani, in linea con il Partito popolare europeo, voleva rafforzare l’Europa modificandone i trattati.
Ma l’autentico smacco, Giorgia Meloni l’ha subito dagli ormai ex alleati politici. Nelle stesse ore in cui a Bruxelles la presidente del Consiglio batteva i pugni sul tavolo, un emissario del premier ungherese Viktor Orbán era a Madrid dal leader di Vox, Santiago Abascal. Con l’intento di reclutare il partito di estrema destra spagnolo nel gruppo dei Patrioti per l’Europa, che si stava costituendo al Parlamento europeo. Vox faceva allora parte dei Conservatori e riformisti, il gruppo guidato da Giorgia Meloni. Il Corriere della Sera rammenta quanto i legami fra i due partiti fossero stretti: «Nel 2021 a una convention degli spagnoli la premier aveva pronunciato la frase poi diventata celebre: sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana». Addio Meloni, il partito Vox ora è con Orbán.
L’alleanza dei Patrioti per l’Europa è stata creata per «prendere parte alla spartizione delle poltrone», scommette L’Espresso, che ironizza: «L’estrema destra cambia nome per restare la stessa». Ma non è un semplice rebranding. Ora c’è un nuovo demiurgo, di nome Viktor Orbán, uscito dal cono d’ombra che velava la sua leadership. Alla vigilia del voto europeo il premier ungherese ha sfoderato il suo famoso grido di battaglia: «Noi patrioti dobbiamo occupare Bruxelles!». Con lui c’erano i leader dei partiti nazionalisti di Cechia e Austria. Pochi giorni dopo si è aggiunto il leader polacco di Diritto e Giustizia. Poi il Rassemblement National e la Lega, passati anch’essi armi e bagagli nei ranghi della nuova creatura politica, decretando la fine del gruppo Identità e Democrazia. Con 84 eletti, sei in più dei Conservatori e riformisti, i Patrioti per l’Europa sorpassano il gruppo di Meloni che retrocede al quarto posto con 78 seggi. Appena uno in più dei 77 di Renew Europe.
Alla guida di una maggioranza divisa, che la premier però si intestardisce a definire «solida nel terzo Paese più importante dell’Ue», Meloni ormai conduce in Europa una battaglia solitaria. Così come sull’impegno del governo italiano in Ucraina, un tema scottante che i vicepremier Tajani e Salvini interpretano da solisti, a volte è un duetto, ad ogni modo «senza Giorgia».
A fine agosto, da Bruxelles il ministro Tajani ha ribadito con impeto la sua posizione: Kiev non deve usare le armi occidentali per colpire le basi da cui i russi lanciano i loro attacchi; solo la Russia può usare le sue armi sul territorio ucraino, non viceversa. Ora il Parlamento europeo, con una maggioranza di 495 voti e 137 contrari, aveva chiesto di far cadere proprio quel divieto, o veto che sia, nei confronti dell’Ucraina. Il fatto è che la linea di Tajani, dalla quale non ha mai deviato, non è stranamente comparsa nel comunicato ufficiale del vertice di maggioranza che doveva essere quello della «compattezza» e della «condivisione».
Non si sa quanto inconsapevolmente, la Lega ha pure diffuso un comunicato diverso da quello di Fratelli d’Italia: sì a un appoggio a Kiev, no a interventi militari fuori dai confini ucraini, no a offensiva Kursk. Il testo è stato subito rettificato. «Per scelta stilistica e non di contenuto. Un semplice errore», si è scusato Salvini. Il «malinteso» ha arrovellato un’estate già molto calda per Meloni. Era il 30 agosto, «neanche il tempo di ricominciare», ironizzava Repubblica.
Lo stesso giorno, per il ruolo di commissario Ue, la premier ha designato Raffaele Fitto, esponente di spicco di Fratelli d’Italia e ministro per gli Affari europei. La mossa è stata questa volta azzeccata. Fitto sarà uno dei sei vicepresidenti esecutivi della Commissione per il prossimo quinquennio, con delega per le politiche di coesione e le riforme. Un incarico, quello di commissario, che comunque spettava di diritto all’Italia, quale Paese membro dell’Ue.