Mafia e donne, un binomio che esiste da sempre ma di cui si parla troppo poco
All’USI di Lugano un convegno dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità fa luce sul ruolo dell’universo femminile nelle organizzazioni mafiose. Donne complici, protagoniste, ma anche vittime coinvolte nella lotta antimafia.
Di Guido Gozzano 5 ottobre 2024
Molte donne svolgono un ruolo non secondario all’interno delle cosche mafiose, anche in funzioni apicali. Altre agiscono a sostegno diretto dei boss, altre ancora gestiscono traffici di usura ed estorsioni. Ma tante, troppe donne sono soprattutto vittime delle organizzazioni criminali. Alcune sono scese in campo per combattere la mafia, pagando a volte con la propria vita. Un ruolo, quello delle donne all’interno della mafia, con diverse sfaccettature.
Sconosciuto al grande pubblico il tema era al centro, giovedì 3 ottobre, di un evento dal titolo «La mafia declinata al femminile» al Campus Est USI-SUPSI di Lugano. Alla tavola rotonda organizzata dall’Osservatorio ticinese sulla criminalità, un panel di sole donne: Alessandra Cerretti, pubblico ministero alla Direzione distrettuale antimafia (DIA) di Milano, Ombretta Ingrascì, ricercatrice in sociologia economica all'Università degli Studi di Milano e Alessia Truzzolillo, giornalista per LaCNews24 e corrispondente per l’ANSA. Ha moderato l’incontro Annamaria Astrologo, dell’Istituto di diritto dell’USI, membro dell’Osservatorio ticinese della criminalità.
«Non c’è inchiesta a Milano sulle organizzazioni mafiose che non abbia collegamenti con la Svizzera allo scopo di riciclare denaro», ha subito dichiarato Alessandra Cerretti, sottolinenando che il fenomeno ci riguarda da vicino. Il Ticino è da tempo terra di mafia. Di quelle cosche della Camorra, Cosa Nostra e ora in particolare della Ndrangheta che hanno fatto ingresso in Svizzera dal cantone italofono. Cinquant’anni fa, nel 1994 , fu proprio una donna a far parlare di mafia in Ticino: Libertina Rizzuto, figlia, moglie e madre di tre boss di Cosa Nostra, viaggiò dal Canada fino alle rive del Ceresio, dove venne arrestata allo sportello di una banca.
In Italia per contrastare la mafia è ora sempre più utile capire la prospettiva di genere. «Alcuni dei ruoli svolti dalle donne, pur non essendo penalmente rilevanti, sono fondamentali per dare continuità alle organizzazioni mafiose e dunque per la loro sopravvivenza», spiega Ombretta Ingrascì. La sociologa considera che «la rappresentazione delle donne legate alla mafia è molto stereotipata e si rifà a due immagini tra loro agli antipodi, da un lato estranee e inconsapevoli, dall’altro lady boss più spietate degli uomini».
In realtà le donne assumono il più delle volte il profilo di collaboratrici subordinate più che di soldatesse o di boss. Ad esempio un terzo degli azionisti delle società confiscate per mafia in Italia sono donne, secondo uno studio del centro di ricerca Transcrime. Le donne si prestano cioè a mansioni di supporto e «quando riescono a ricoprire anche ruoli 'di regia' all'interno delle cosche, è sempre con il benestare della componente maschile».
La sociologa Ombretta Ingrascì indica la funzione delle donne come veicolo «educativo» per i giovani mafiosi: «La donna mantiene sempre il ruolo di rappresentante di determinati valori mafiosi, molti madri hanno armato le mani dei propri eredi per eseguire vendette e portare avanti attività criminali, magari in assenza dei capi clan».
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A volte, come detto, anche le donne occupano ruoli apicali. Ne ha fornito un eclatante esempio Alessia Truzzolillo, giornalista di Lac News24 e dell’Ansa: si tratta di Aurora Spanò, condannata dal Tribunale di Palmi a venticinque anni di reclusione, gestiva un traffico di usura ed estorsioni condotto della cosca di San Ferdinando, nella provincia di Reggio di Calabria. «Malmenava lei stessa durante le operazioni estorsive e obbligava le detenute a pulire la sua cella», racconta la giornalista. Oggi è sottoposta al regime carcerario del 41bis: «È una delle due donne che subiscono questa misura restrittiva in Italia».
Soltanto nell’ultimo decennio è mutata la percezione delle donne nella mafia. «Quando arrivai alla Procura di Reggio Calabria nel 2010 i miei colleghi ritenevano che le donne non avessero nessun ruolo all’interno delle cosche», rammenta Alessandra Cerretti. Le donne calabresi hanno in realtà contribuito a rendere la Ndrangheta fortissima e meno permeabile al fenomeno del pentitismo. Dodici delle settantotto persone arrestate nell’ambito della maxi inchiesta contro la cosca Pesce di Rosarno «erano donne», sottolinea la procuratrice antimafia. Una percentuale forse da record.
Nell’evoluzione in corso all’interno delle strutture mafiose, può capitare di tutto. Addirittura una cittadina lombarda si è ritrovata a capo di una «locale» calabrese a Rho. Gestiva il narcotraffico nella zona. È stata condannata in primo grado per appartenenza a un’organizzazione mafiosa. Il primo caso in Italia di una donna lombarda boss della Ndrangheta.
Alcune donne della Ndrangheta hanno invece scelto di collaborare con i procuratori antimafia. Alessandra Cerretti menziona il caso di Giusy Pesce, la postina dei clan, figlia del boss Salvatore Pesce. Ha aperto la stagione delle collaboratrici di giustizia. È stata proprio Cerretti a convincerla a parlare. La procuratrice considera che è oggi possibile fare leva sulla madri per scardinare le mafie: «Assicurare un futuro ai figli può costituire un grimaldello per spezzare le catene in cui sono strette».
La procuratrice milanese ha contribuito alla costituzione di un protocollo a livello nazionale, approvato dal Governo, per decretare la decadenza della patria potestà genitoriale ai mafiosi. «Il disegno di legge è in dirittura d’arrivo», dichiara: «Grazie alle donne-madri gli eserciti delle mafie potrebbero perdere molti soldati».
Alla tavola rotonda è stato infine evocato il dramma delle testimoni di giustizia cadute sotto i colpi dei mafiosi, fra cui l’efferato omicidio di Lea Garofalo nel 2009 a Milano da sicari della ‘Ndrangheta. Un modo di rendere omaggio a tutte le vittime della mafia.