Qualifiche uguali, prospettive diverse
Il lavoro plasma la nostra esistenza. È parte della nostra identità e contribuisce in modo determinante alle nostre condizioni di vita. È quindi ancora più importante che tutte le persone abbiano un accesso equo al mercato del lavoro. Ma per chi ha un passato di migrazione, si trasforma in una corsa ad ostacoli fin dal processo di candidatura.
Di Michael Steinke Ufficio comunicazione Syna / 13 dicembre 2024
Molti conoscono la situazione: si trova un annuncio di lavoro interessante, si inoltra la propria candidatura e si attende con trepidazione – ma il tanto agognato invito al colloquio di assunzione non arriva mai. Un’esperienza alquanto frustrante che le persone con un passato di migrazione sperimentano con molta più frequenza, come confermato da diversi studi.
Ad essere diverso è solo il nome
Per studiare la discriminazione sul mercato del lavoro, la ricerca ricorre al cosiddetto «Practice Testing»: i ricercatori creano candidature di persone fittizie e misurano le reazioni dei responsabili del personale. Poiché lo studio esclude tutte le differenze tra i candidati che potrebbero essere rilevanti per la professione, i diversi feedback possono essere chiaramente ricondotti a pregiudizi discriminatori. I nomi dei candidati vengono scelti in modo mirato per segnalare l’origine o l’appartenenza etnica.
La prima indagine di questo tipo sul mercato del lavoro svizzero è stataa condotta nel 2003 dalla politologa Rosita Fibbi e dal suo team. Le candidature fittizie erano equivalenti e si differenziavano unicamente per il nome e la nazionalità dei candidati. Per ogni annuncio di lavoro furono inviate due candidature. Dai risultati emerse che le persone con nomi portoghesi, turchi e jugoslavi venivano invitate più raramente a un colloquio. Le persone con nomi portoghesi dovettero candidarsi 1,33 volte in più per ottenere lo stesso numero di inviti rispetto ai candidati con nomi svizzeri. Il fattore risultò di 1,24 per i nomi jugoslavi e di 1,30 per quelli turchi.
Nessun miglioramento di rilievo
Oltre un decennio più tardi, lo stesso esperimento è stato ripetuto, questa volta con persone naturalizzate. Si potrebbe pensare che la discriminazione sia diminuita nel tempo o che la naturalizzazione abbia migliorato le opportunità – ma il risultato è stato deludente: il livello di discriminazione è rimasto pressoché invariato. Il fatto che una persona abbia o meno la cittadinanza svizzera ha svolto un ruolo marginale fintanto che il nome era percepito come «non svizzero».
È interessante notare come le persone provenienti dai Paesi confinanti, Germania e Francia, non abbiano praticamente subìto alcuno svantaggio. Ciò dimostra che gli svantaggi strutturali interessano non la migrazione in sé, bensì determinati gruppi etnici. La Svizzera non è l’unica a segnare questi risultati deludenti, che riflettono la situazione in altri Paesi europei e sono in linea con gli studi internazionali. Dagli anni Novanta la discriminazione razziale sul mercato del lavoro è rimasta pressoché invariata.
Gli stereotipi predominano
La radice del problema va ricercata nei pregiudizi inconsci di molti datori di lavoro. Alcuni studi dimostrano che i candidati con nomi che suonano stranieri o con un passato di migrazione sono giudicati più severamente, anche a parità di qualifiche. Di conseguenza, alcuni gruppi sono considerati meno idonei. Questi stereotipi sono così radicati da predominare anche laddove vengono esplicitamente confutati dalla candidatura.
La discriminazione è addirittura duplice: «Gli studi dimostrano che le persone con un passato migratorio vengono assunte meno di frequente per professioni maggiormente qualificate, ma più di frequente per lavori con requisiti di formazione inferiori rispetto agli svizzeri con pari qualifica», spiega Véronique Rebetez, responsabile del servizio per la migrazione presso il sindacato Syna: «Le persone che subiscono del razzismo strutturale hanno minori possibilità di trovare un lavoro adeguato, di solito guadagnano meno, sono colpite più spesso dalla disoccupazione e si concentrano maggiormente in determinati rami professionali e settori».
Urge intervenire
Véronique Rebetez chiede misure per combattere questo razzismo strutturale: «È fondamentale che l’assegnazione di un impiego si fondi unicamente sulle qualifiche. A tal fine sono necessari corsi di formazione mirati per i responsabili del personale e procedure di candidatura anonime. In Francia è già lo standard: le candidature non riportano il nome né la fotografia». Il messaggio è chiaro: «Le pari opportunità dovrebbero essere scontate. Non dobbiamo permettere che strutture discriminatorie ostacolino l’accesso al lavoro e alla promozione sociale».
Per Véronique Rebetez, ridurre le strutture discriminatorie nel processo di candidatura è solo un primo passo verso un’autentica parità di opportunità. «Oltre a un atteggiamento più aperto nei confronti della diversità, sono necessari anche miglioramenti amministrativi, come il riconoscimento più rapido dei titoli esteri, compresi quelli di Paesi terzi, e una maggiore considerazione dell’esperienza professionale. Inoltre, l’accesso alla formazione deve essere più equo».
L’integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro è un’altra sfida molto particolare: «I datori di lavoro che assumono rifugiati devono avere più certezze ai fini della pianificazione. Spesso non sanno per quanto tempo potranno contare su queste persone, il che riduce notevolmente la motivazione a ingaggiarli». Tutti questi esempi mostrano chiaramente quanto sia indispensabile il lavoro del servizio Syna per la migrazione!