Lauree facili come specchio sociale
Di Fabio Lo Verso direttore 24 febbraio 2025
Il «pezzo di carta», la laurea universitaria, è ai primi posti fra gli scopi da raggiungere. In Italia è il «passaporto» per il lavoro, i report Istat confermano il suo valore per l’occupazione. Senza la laurea si resta essenzialmente esclusi dal mondo professionale, ma fino a che punto si è pronti a spingersi per ottenere un titolo di studio universitario? Risposta: fino ad acquistarlo.
Ecco perché la vendita delle lauree è divenuto un mercato redditizio, prospero nel Belpaese in cui ricevi un preventivo in pochi clic. Ma è pur sempre più prestigioso e rinomato un titolo accademico ottenuto all’estero, in Svizzera ad esempio: il Paese elvetico è un marchio di qualità e affidabilità.
Così la Confederazione è da anni la nuova «patria» delle università private telematiche italiane. Promettono un titolo di studio in pochi mesi, con corsi facili da remoto, (pochi) esami facili con validazioni al volo, la tesi è scritta da altri, e l’agognata pergamena spedita a casa con tanto di cornice pregiata.
La tariffa per una laurea facile varia dai tremila ai seimila franchi, a volte di più. In Ticino, a Zugo e Ginevra, in oltre un decennio hanno fatto irruzione decine di atenei «farlocchi»: che lo siano, fasulli, lo ha sancito il Ministero italiano dell’Università e della Ricerca, aprendo un’inchiesta nei confronti di undici università telematiche con oltre 140mila studenti in dieci anni.
In Italia, per molti under 23, gli istituti privati online rappresentano ormai la prima scelta post-diploma. Nel settore pubblico, l’impulso all’acquisto è sfociato in clamorosi rinvii a giudizio per soldi in cambio di esami mai sostenuti. È accaduto al Sud come al Nord, nelle università statali di Palermo e Salerno, e in quelle di Genova e Bologna.
Forse la radice di questo cedimento risiede nell’avversione, quasi sistematica, verso il lavoro intellettuale e culturale. Nel livellamento in basso del valore dello studio e della conoscenza, sulla base di un minimo comune denominatore più vicino al grado inferiore, come attestano i rapporti Censis.
L’ultimo nel 2024 denuncia un’ignoranza «sempre più grassa e profonda», scrive il Fatto Quotidiano: «Oltre il 50% degli italiani non sa indicare correttamente il secolo della rivoluzione francese, circa il 30% non conosce l’anno dell’unità d’Italia, quando è entrata in vigore la Costituzione, né quando è caduto il muro di Berlino, il 42% non sa quando l’uomo è sbarcato sulla Luna, e il 13% cosa fosse la Guerra fredda».
«L’Italia? è il Paese più ignorante d’Europa», titolava già nel 2018 il Sole 24 Ore. L’omologazione televisiva, la celebrazione degli stili di vita spensierati, del merito come valore negativo, hanno lavorato molto per l’abbassamento generale della cultura, a cui ora le lauree facili fanno da specchio sociale.