Fantozzi siamo noi: il ragionier Ugo compie 50 anni
La storia dell’italiano medio, raccontata da uno dei più iconici personaggi del cinema italiano. Forse troppo difficile da capire all’estero, troppo connotato, ma una volta capito, l’Italia non ha più segreti.
Di Antonella Montesi 15 aprile 2025
Già dai titoli di testa, con la musica di Fabio Frizzi che non fa presagire nulla di buono, il trombone… mamma mia, lo spettatore cade in quello stato catartico di divertimento misto a paura, che non lo abbandonerà più per tutta la durata del film. Divertimento perché le gag sono esilaranti, la sceneggiatura sapiente, il linguaggio del corpo di Fantozzi, ragionier Ugo, matricola 7829/bis, nato dalla fantasia di Paolo Villaggio, le sue smorfie, la bocca storta, lo sguardo spaventato, le mani rattrappite, spesso prese tra sportelli di macchine o porte di alberghi: oddio, fa ridere sì, ma Fantozzi siamo noi, quelle disgrazie potrebbero davvero accadere ad ognuno di noi, forse qualcuna ci è già accaduta, per cui il riso è davvero un riso amaro.
Il 2025 è l’anno del cinquantesimo anniversario del primo film Fantozzi, che quest’anno può essere rivisto, in versione restaurata, nelle sale cinematografiche. Nel 1975, dopo la pubblicazione del libro di Paolo Villaggio presso Rizzoli, la stessa casa editrice, al contempo anche produttrice cinematografica, lancia il film Fantozzi. Un cast eccezionale, Gigi Reder nei panni del collega Filini, Anna Mazzamauro, la signorina Silvani, crudele sfruttatrice del povero ragioniere, usando le proprie arti seduttive di bruttina che piace, e poi tutta una galleria di personaggi dai nomi che sono un programma: il direttore megagalattico, la contessina Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, che nel secondo film, dal titolo programmatico Il secondo tragico Fantozzi, al varo della nave, spaccherà tutte le bottiglie di champagne disponibili sulle teste delle varie autorità, sindaco, carabinieri e di Fantozzi stesso, e in seguito amputerà anche il mignolo al cardinale.
Fantozzi siamo noi, Fantozzi è l’italiano medio degli anni Settanta, figlio del boom economico, l’italiano che ormai ha un posto fisso, una macchina, anche se è una scomoda Bianchina quattro posti, che, come il suo proprietario, spesso è vittima di catastrofici incidenti e semina pezzi dappertutto.
Una cruda analisi intrisa di Kafka, Gogol e della Scuola di Francoforte
Fantozzi è innanzitutto una cruda analisi della società italiana di quegli anni. Il Filmpodium di Zurigo, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura (IIC), ha organizzato in marzo una visione del film, a cui è seguito un dibattito tra il filosofo Raffaele Alberto Ventura e il direttore dell’IIC Francesco Ziosi.
Un dibattito in cui si è affrontata una prospettiva interpretativa diversa: Fantozzi, dietro il quale vi è naturalmente la figura di Paolo Villaggio, non solo attore, ma anche intellettuale intriso di letture colte: dai filosofi della Scuola di Francoforte a Kafka e i classici russi, soprattutto Gogol. E poi le citazioni più puramente meta-cinematografiche: lo slapstick, la commedia dell’arte, le cadute e le botte dei film muti, dove poi ci si rialza senza essersi fatti male, lasciando magari a terra un paio di falangi. Tra i riferimenti letterari più presenti, senz’altro il Kafka de La metamorfosi, l’allegoria della alienazione dell’uomo moderno all’interno della famiglia e della società, che si traduce nell’isolamento del «diverso» e nell’incomunicabilità con i propri simili: praticamente il ritratto di Fantozzi, ragionier Ugo, i cui rapporti con gli altri sono tutti all’insegna dell’incomunicabilità, nella sua forma più crudele: il malinteso.
Il Filmpodium di Zurigo, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura (IIC), ha organizzato in marzo una visione del film Fantozzi, a cui è seguito un dibattito tra il filosofo Raffaele Alberto Ventura e il direttore dell’IIC Francesco Ziosi.
Fantozzi è colui che ha sì raggiunto una certa stabilità e sicurezza sociale, il posto fisso, la casa, la macchina, la famiglia, la ditta, ma a che prezzo, perdendo la propria individualità e soprattutto la propria felicità, anzi, rinunciando in toto alla realizzazione del sé, l’unico modo, secondo la psicologia classica, per essere felici. Come spiegato anche dal filosofo Ventura, autore di un libro sulla classe disagiata (intesa come contrario di agiata) e di uno sul radical choc (non chic, ma proprio choc), durante il dibattito in occasione della proiezione, e soprattutto come sottolineato dal direttore dell’IIC Francesco Ziosi, che ha posto la bella domanda: «Chissà come dovremmo immaginarci Fantozzi da giovane, a vent’anni?».
Dalla vita rurale all’alienazione borghese: Olmi
La risposta a questa domanda si trova ripensando alla nostra cultura. Una risposta viene proprio dal cinema, da un altro film ambientato come Fantozzi a Milano, ovvero Il posto di Ermanno Olmi (1961). Ecco, il ragionier Fantozzi potrebbe essere lo sviluppo di quel Domenico, il ragazzo protagonista del film di Olmi, che da Meda, nell’hinterland brianzolo, la mattina, abbandona la cascina dove vive con la famiglia, attraversa la campagna intrisa di bruma, per recarsi a Milano per farsi assumere in una ditta, il suo grande sogno. Un sogno che riuscirà a realizzare, verrà assunto come fattorino. Soprattutto la festa di Capodanno ha grandi similarità nei due film: ne Il posto, Domenico si trova tra un variegato microcosmo, i nuovi colleghi, a dover fingere una felicità che non prova; in Fantozzi la felicità non sarà più nemmeno finta, sarà direttamente assente.
Il ragionier Fantozzi potrebbe essere lo sviluppo di quel Domenico, il ragazzo protagonista del film di Olmi Il Posto.
Immagino che quel Domenico sia non tanto Fantozzi da giovane, ma forse addirittura il padre di Fantozzi, figlio di contadini o di operai, che vivono in una cascina, dove la vita è diversa, è agli albori di quello che sarà un cambiamento sociale epocale: l’abbandono della campagna per la città; l’entrata in fabbrica o in azienda; lo sfaldamento dei rapporti personali, gli affetti famigliari ed amicali sostituiti dai colleghi, che ricordano un po’ i compagni di scuola di Venditti: compagni di niente. Sempre Olmi farà rivivere questo Eden preindustriale ne L’albero degli zoccoli, film del 1978, nel quale descriverà la vita umile contadina di quattro famiglie, in una cascina a fine Ottocento.
Fantozzi, ragionier Ugo viene da lì. Un percorso sociale che parte dalle cascine, dalla vita contadina fatta di lavoro e preghiere e riti ancestrali; il passaggio alle fabbriche, alle ditte; la presa di coscienza con le letture che aiutano a capire chi siamo e da dove veniamo e soprattutto dove andiamo: un percorso che, in paesi come l’Italia e la Germania, sfocerà in parte nel terrorismo, punta estrema della lotta di classe. Il filosofo Ventura, cita a proposito una frase di Tocqueville: «Dopo la Rivoluzione francese, con la caduta dei ranghi, sono tutti contro tutti». E in Fantozzi, che è un’istantanea di un preciso momento sociale e politico, sono davvero tutti contro tutti, non c’è più alcuna tenuta sociale. E proprio la critica sociale è tanta, basta scorrere i nomi e le cariche, e i titoli nobiliari: parodia sì, ma tanto acume nel descrivere in due parole, spesso una sola, tutto un mondo di privilegi e ingiustizie.
Nell’hinterland brianzolo, la mattina, Domenico, il ragazzo protagonista del film di Olmi, abbandona la cascina dove vive con la famiglia, attraversa la campagna intrisa di bruma, per recarsi a Milano per farsi assumere in una ditta.
Gli altri perdenti: il signor Rossi, Marcovaldo
E poi c’è il signor Rossi altra maschera tragicomica creata nel 1960 da Bruno Bozzetto. Questa volta a fumetti, viene rappresentato l’emblema dell’italiano medio degli anni ’60, un uomo comune che riflette le problematiche dell’epoca, come il lavoro eccessivo, l’alienazione e la mancanza di comunicazione. È un uomo che, nonostante le sue difficoltà, prova a fare, ride, piange, cade e sogna: proprio come il nostro Fantozzi, al quale somiglia anche un po’: piccolo di statura e paffuto, uno sguardo fra il divertito e lo spaventato, e senza togliersi mai quella giacca e quel cappello, la divisa del decoro borghese, duramente conquistato.
E poi c’è Marcovaldo di Italo Calvino. Anche qui un individuo comune, più della generazione del padre del Fantozzi, ragionier Ugo, che non di lui stesso. Marcovaldo è un manovale con problemi economici, ingenuo, sensibile, inventivo, interessato al suo ambiente e un po’ buffo e melanconico, che conduce una vita banale e fatta di stenti, ambientata in una città industriale degli anni Sessanta durante il boom economico. È un personaggio che conserva ancora molta della poesia del mondo da cui proviene, la campagna, la natura, la leggerezza. Caratteristiche che non saranno invece più presenti in Fantozzi, dove anzi, anche gli incontri con la natura diventano tragici e hanno un gusto amaro, come la scena della caccia ne Il secondo tragico Fantozzi, la partita di calcio tra scapoli e ammogliati e il campeggio con il ragionier Filini del primo film: tutte esperienze tragiche. Ormai, a boom economico conclusosi, anche la natura non è più fonte di tranquillità e gioia per gli uomini, ma è diventata la natura matrigna di Leopardi.
La corazzata Potemkin: forse lo sfogo più rivoluzionario del cinema italiano
E la famosa Corazzata Potemkin? «Una cagata pazzesca!» e giù novantadue minuti di applausi per il Fantozzi riscattato. In realtà Paolo Villaggio, che senz’altro era un estimatore di questo capolavoro della storia del cinema, pur in modo comico riesce a farlo conoscere a un vasto pubblico. Infatti, grazie a questa citazione dissacrante, generazioni di spettatori sono venuti a conoscenza di un film che, girato nel 1925 da Eisenstein, forse non sarebbe mai entrato nelle loro vite, come non sarebbe entrato in quella del geometra Calboni, il bello del cast e futuro marito della signorina Silvani, che pur nella sua avversione, non può non nominarne, ogni volta che è costretto a vederlo, e le volte sono tante, il «montaggio analogico».
Alla fine, il messaggio di Fantozzi, nonostante tutte le atrocità ed ingiustizie e brutture è un messaggio di positività, e comunque al cinema si ride, e si ride tanto e meglio se insieme ad altri in una sala di cinema: buona visione!