Da Nord a Sud, un popolo, un Paese

La battaglia per il federalismo, a volte impregnata di secessionismo, è divenuta negli ultimi decenni tema di acceso scontro politico. Fino alla recente riforma sull’autonomia differenziata che accresce le differenze territoriali e spacca il delicato equilibrio della Repubblica e la Repubblica stessa. Le ragioni per combatterla.

Di Toni Ricciardi 29 ottobre 2024

 

Ampliare il potere dei livelli territoriali è sempre stato un principio cardine del sistema italiano. L’Italia, storicamente paese degli ottomila campanili, delle signorie e dei granducati, si caratterizza per la sua diversità territoriale, da Nord a Sud, e trasversalmente tra aree metropolitane e aree interne. Ritroviamo il concetto delle Regioni agli inizi del XX° secolo già nel manifesto del Partito Popolare Italiano di Luigi Sturzo. Superate le tragedie del fascismo e della Seconda guerra mondiale, le Regioni diventano materia delle madri e padri costituenti, finendo come definizione nell’art. 114 della Costituzione e seguenti.

Sancite nel 1948, le Regioni vedranno luce solo nel 1970. La loro istituzione portò ad un ampio dibattito parlamentare all’epoca. Eravamo in un sistema politico bipolare, in una democrazia bloccata per le note vicende geopolitiche. Emblematico, tuttavia, è ricordare la posizione presa all’epoca dal relatore di minoranza alla Camera, Giorgio Almirante, che sottolineò come l’istituzione delle Regioni come strutture amministrative con capacità di spesa, sottoposte al controllo politico dei partiti, avrebbe generato l’esplosione del debito pubblico. A partire dal 1975, il debito infatti esploderà, dando ragione alle parole del leader missino.

Come sappiamo, la battaglia per il federalismo, a volte impregnata di secessionismo, è divenuta negli ultimi decenni tema di acceso scontro politico. Nel 2001, ci fu la riforma del titolo V, che non ha fatto altro che aprire all’autonomia differenzia per come è stata approvata nell’attuale legislatura. Le posizioni sul tema sono diverse e diversificate, nell’impossibilità di sintetizzarle è qui importante e necessario sottolineare alcuni dei rischi che tale provvedimento, così concepito, potrebbe generare.

La prima fondamentale questione riguarda il ruolo del Parlamento o, se si vuole, delle assemblee legislative. Nell’iter delle possibili intese tra Governo e Regione, il Parlamento e i Consigli regionali hanno funzione di mera ratifica. Detto in altri termini, vengono privati del loro ruolo. Dovranno solo prendere atto di quanto si farà ma non avranno potere decisionale.

La seconda questione è la determinazione dei Lep, i Livelli essenziali di prestazione. In che misura i Lep ledono i principi di eguaglianza e perequazione previsti dalla Costituzione? Innanzitutto, per loro stessa natura, la definizione «Livelli essenziali di prestazione» non corrisponde ai principi sanciti nel II comma dell’art. 3 della Carta costituzionale, che recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Come emerso ampiamente durante l’iter di approvazione del provvedimento, la definizione di «essenziale» non corrisponde e non soddisfa il principio di «uguaglianza». I Lep non tutelano l’eguale diritto, che deve essere invece garantito e assicurato sull’intero territorio nazionale, indipendentemente, appunto, dai luoghi. La definizione dei Lep è di esclusiva competenza dello Stato.

Per questa ragione, sarebbe stato ed è più opportuno che i Lep si trasformino in Lup (Livelli uguali di prestazione). «Uguali» come sinonimo di «identici», a prescindere dalle differenze storiche, geografiche e socio-strutturali tra diversi territori, assolvendo così al principio della perequazione. Ovvero l’obiettivo dovrebbe essere quello di eliminare le eventuali discriminazioni o sanare gli eventuali svantaggi a livello territoriale.

Al contrario i livelli «essenziali», così come proposti, sono invece da intendersi come minimi e creano una discriminazione già in partenza insormontabile. E ancora, l’enorme ampiezza, quantitativa e qualitativa, dunque per numero e tipologia, delle materie oggetto di autonomia differenziata può impedire allo Stato di svolgere le sue funzioni.

Inoltre, il provvedimento è ispirato a una sorta di contratto privato tra Stato e Regione, che emargina le altre Regioni e le stesse Camere, svuotandole del loro ruolo. Lo strumento delle intese ha caratteristiche che non si basano sulla distribuzione equa e metteranno in competizione le parti contraenti.

Al momento, le procedure burocratiche delle intese si stanno moltiplicando. In più, amplieranno le frizioni generate dalla riforma del titolo V del 2001, tra Stato e Regione, con l’aggiunta, in questo caso, di concorrenzialità tra le Regioni stesse. L’attuazione dell’art. 116 della Costituzione rischia di generare una profonda e incolmabile competizione tra le Regioni e di far venir meno il principio costituzionale della solidarietà tra le stesse.

Se si volesse adottare il principio del regionalismo competitivo, sarebbe necessario individuare prima in maniera dettagliata e strutturata i Lep e prevedere come finanziarli. Al momento, i costi stimati sono tra gli 80 e 100 miliardi di euro l’anno. Senza questo passaggio preliminare, si creerà un sistema competitivo tra diseguali e si comprometterà irrimediabilmente ogni possibilità di un sistema di regionalismo competitivo che consenta a tutte le Regioni di partire a pari condizioni.

In parole semplici, ci saranno Regioni in partenza avvantaggiate e Regioni svantaggiate, Regioni e territori di serie A e Regioni e territori di serie B. Infine, come concepito, questo sistema di competizione non prende in considerazione le differenze demografiche esistenti tra Regioni. Differenze che già oggi limitano i servizi in essere e la loro erogazione. L’autonomia differenziata non assicurerà la possibilità di garantire eguali diritti a ogni cittadina e cittadino sull’intero territorio nazionale. Al contrario, aggravando i divari territoriali esistenti e ben noti, lede irrimediabilmente quanto stabilito all’art. 3 dalla Costituzione, inserendo, se vogliamo, ostacoli di ordine economico e sociale anziché adoperarsi per rimuoverli.

La strada intrapresa porterà ad acuire le distanze territoriali, accrescere le differenze e a spaccare definitivamente il delicato equilibrio della nostra Repubblica e la Repubblica stessa.

 
Corriere dell’italianità


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