Riforma del titolo V della Costituzione: aspetti nodali e criticità sospese
Lo scontro nel Parlamento italiano a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi ha riportato in primo piano l’esigenza di riforme «giuste», vocate al bene comune e alla coesione nazionale, come accade in Svizzera, quando sono in gioco i capisaldi del sistema e del bene del Paese».
Di Franco Narducci 30 ottobre 2024
La modifica del titolo V, parte seconda della Costituzione, è stata approvata con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, promulgata dopo l’esito positivo del referendum confermativo. A quel tempo ricoprivo la carica elettiva di Segretario generale del Consiglio generale degli Italiani all’estero (Cgie), la massima istituzione di rappresentanza delle comunità italiane sparse nel mondo, un organo molto combattivo anche in virtù di tale responsabilità.
La riforma del titolo V alzò il livello di attenzione e di analisi nel Cgie visto che preconizzava un grado superiore di responsabilizzazione delle singole Regioni, alle quali si demandava l’assunzione più ampia delle competenze in tema di emigrazione. L’entusiasmo che al riguardo si toccava con mano, si è poi molto affievolito, con alcune lodevoli eccezioni, nel volgere di qualche decennio, anche se il valore del rapporto diretto tra le Regioni e i loro emigrati rimane comunque un acquis inoubliabile, una conquista indimenticabile.
La riforma dei titolo V della Costituzione, voluta e condotta dal Governo allora presieduto da Giuliano Amato, offrì ben presto il fianco ad un nugolo di critiche. Da un lato vi era la vulgata, diventata opinione pubblica, che la riforma fosse una risposta della sinistra alle pulsioni federaliste (e separatiste) della Lega Nord, per cui si volle portare lo scontro politico sul terreno caro ai leghisti, sperando in una risposta benevole dell’elettorato del Nord Italia (l’esito delle elezioni politiche del 2001, come sappiamo, dimostrò che l’assunto era completamente errato). Dall’altro lato vi erano le critiche, in alcuni casi feroci, di quanti accusavano la riforma di dilatare a dismisura le competenze regionali e degli Enti locali; una riforma sbagliata, dunque, che anziché semplificare amplificava l’appesantimento amministrativo senza migliorare i servizi erogati dallo Stato.
Il titolo V costituisce lo sviluppo dell’immutato disposto dell’art. 5 della Carta fondamentale: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Ma sulle «e» evidenziate in corsivo è in atto un dibattito infuocato, un conflitto politico aspro, il cui prodromo è rappresentato dallo scontro dei mesi scorsi sull’autonomia differenziata tra la premier Giorgia Meloni e Vincenzo De Luca, il presidente della Campania.
La legge «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione» fortemente voluta dal ministro Roberto Calderoli - pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 26 giugno 2024 n. 86 ed entrata in vigore il 13 luglio 2024, contro la quale è stato lanciato il referendum «Contro l’autonomia differenziata. Una firma per l’Italia unita, libera, giusta» - definisce i principi generali per l’attribuzione alle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché delle modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione.
Ma andando oltre le definizioni, la legge è apparsa subito molto divisiva e «Spacca Paese»: lascia intravedere il rischio di scenari preoccupanti sia per il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni sia per i conti pubblici. Lo scontro nel Parlamento italiano a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi, che ora si è trasferito nei territori, ha riportato in primo piano l’esigenza di riforme «giuste», vocate al bene comune e alla coesione nazionale, come accade, per esempio, in Svizzera quando sono in gioco i capisaldi del sistema e del bene nazionale.
Il federalismo fiscale, che ha dominato il dibattito politico negli ultimi decenni, è un esempio della lentezza delle riforme giuste per il Paese. Al legislatore era stato affidato il compito, per l’attuazione della legge n. 42/2009, di definire i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), cioè la soglia di spesa occorrente per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché «il nucleo invalicabile di garanzie minime» per rendere effettivi tali diritti. I ritardi del legislatore nell’individuazione dei Lep, hanno creato forti criticità.
Con l’autonomia differenziata le Regioni potranno inoltrare domanda al Governo per attribuirsi nuove funzioni, limitatamente alle materie meno sensibili sul piano dei diritti civili e sociali, ovvero quelle non classificabili nei livelli essenziali delle prestazioni rilevanti. Tra di esse, le cosiddette «materie non-Lep» , si contemplano settori di intervento pubblico basilari come la previdenza complementare e integrativa, la protezione civile, la coordinazione della finanza pubblica e del sistema tributario.
Per le altre funzioni pubbliche decentrabili, quelle di maggiore peso in termini di diritti e portata finanziaria - l’istruzione, la tutela dell’ambiente, le grandi reti di trasporto - le Regioni dovranno attendere che il Governo, a tutela della solidarietà nazionale, stabilisca i relativi Lep e stimi le risorse occorrenti per assicurarli nei territori regionali, secondo un processo che si dovrebbe concludere entro la fine del 2024.
Questi aspetti, che paventano rischi di sostenibilità finanziaria a livello nazionale e aumento delle disuguaglianze territoriali, hanno rinfocolato il dibattito polarizzato da anni tra favorevoli e contrari. Poniamo il caso di una Regione che richieda la gestione autonoma del proprio sistema sanitario: come farebbe a sostenerne i costi, basterebbe la trattenuta di una parte della fiscalità statale che viene maturata sul territorio della Regione stessa?
È evidente che entrano in gioco aspetti nodali come la perequazione per le disparità Nord-Sud e il livello di redistribuzione tra territori: il Pil procapite a Sud è circa la metà di quello del Nord, il reddito procapite della Regione italiana più ricca è quasi il doppio di quella più povera, il tasso di occupazione, il divario della povertà delle famiglie, la percentuale di asili nido sul territorio, e via dicendo.