Le maglie larghe della Svizzera
di Fabio Lo Verso direttore 27 gennaio 2025
Nella strana vicenda di Mohammad Abedini Najafabadi, il ricercatore iraniano arrestato a Milano su richiesta degli Stati Uniti con l’accusa di esportazione di materiali tecnologici in Iran, c’è una sensazione di «déjà-vu». L’impressione che negli intrighi internazionali la Svizzera abbia il ruolo designato di parco giochi, un giardino fiorito funzionale per chi voglia piantare grane.
La Confederazione è (stata) il crocevia di ogni tipo di imbroglio, i depositi miliardari di Tangentopoli, il contrabbando di sigarette in Europa, il traffico d’oro, gli affari criminali delle mafie di mezzo mondo... La lista è lunghissima. Smisurata. Sulla quale pesa un sospetto: la Svizzera chiude gli occhi e tiene aperte le maglie della rete di controllo.
Ora la storia del ricercatore venuto da Teheran al Politecnico di Losanna per «perfezionarsi» nell’uso dei sensori per i droni è, forse, ancora da scrivere. In comune ci sono però un paio di cose: era un personaggio davvero importante per il regime iraniano, e nessuno se n’è accorto o ha avuto il minimo sospetto. Che fosse così importante, è chiaro dal momento in cui Teheran ha arrestato e incarcerato la giornalista Cecilia Sala.
L’Iran, con il fiato pesante di Israele sul collo, ha bisogno di quei velivoli killer con cui si combattono le guerre. Piccoli e leggeri, utili per cercare persone disperse, trasportare medicinali, combattere incendi e sorvegliare colture, sono sempre più essenziali sui campi di battaglia, per sganciare ordigni e schiantarsi come kamikaze sui bersagli militari, mietendo morti e feriti.
Come quel drone munito, secondo l’Fbi, di chip sensibili messi a punto da Abedini in un laboratorio dell’Epfl. Non c’è allora forse più da chiedersi perché, per gli ayatollah, avrà avuto un valore inestimabile un giovane ingegnere iraniano, che a Losanna commerciava sensori di movimento per il settore ippico, inserendoli nelle divise dei fantini.
Ma la miscela fra uso civile e bellico era già esplosa fra le dita dei ricercatori dell’Epfl, quando i droni di una startup incubata dal campus hanno sorvolato l’Afghanistan, dal 2017 al 2020, guidati dai militari statunitensi. Erano stati concepiti per sorvegliare i cantieri urbani e i terreni agricoli, ricevendo centinaia di migliaia di denari pubblici, fra cui 630mila franchi dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica.
Al danno si tenta adesso di rimediare stringendo le maglie del controllo negli istituti di ricerca e formazione svizzeri. Nel 2024 il Politecnico di Zurigo ha introdotto misure antispionaggio verso studenti e ricercatori di Paesi soggetti a sanzioni internazionali, Russia, Iran, Siria e Cina. La stessa esigenza è stata discussa all’Epfl di Losanna, che ora si ritrova con le spalle al muro.
Per la Svizzera, la vicenda è una spinta ad estirparsi dalla bolla di spensieratezza in cui ha vissuto. Ma per uscirne è necessario un cambio di passo.