«Sono abbonato a questo giornale da più di 60 anni»
È il più longevo dei nostri lettori. Luigi Nardin, ex operaio in una filiale del gruppo Bosch a Soletta, ha da poco compiuto 88 anni: «Il Corriere è cambiato, ma l’ho visto cambiare sempre con interesse».
Di Fabio Lo Verso 13 febbraio 2025
È stata una delle conversazioni più piacevoli della mia carriera di giornalista. Ho chiamato Luigi Nardin alla vigilia del suo 88esimo compleanno, celebrato lo scorso 4 febbraio. Di lui sapevo soltanto che è il più longevo abbonato del Corriere degli italiani, divenuto nel 2021 il Corriere dell’italianità. Ha versato la sua prima quota annua nel 1964.
Al telefono risponde una voce squillante, gioviale, simpaticissima. Nardin termina tutte le sue frasi, intelligenti, sensibili, con un sorriso. Lo sento ridere, e mi fa bene. Il suo buon umore mi contagia, mi fa entrare con grazia nella sua storia personale che mi racconta con un pizzico di riservatezza, e abbondante umanità. Una storia semplice, e particolare.
Luigi Nardin, quali sono le sue origini?
Sono nato 88 anni fa a Luvigliano di Torreglia, in provincia di Padova, dall’altra parte della collina di Abano Terme, fra i Colli Euganei, in quella che, si dice, fosse la proprietà di Tito Livio, il grande storico dell’Antica Roma.
Lei è cresciuto durante la guerra, cosa ricorda della sua infanzia e adolescenza?
La mia scuola è stata bombardata. Per questo motivo non ho fatto tutte le classi elementari. Mi hanno fatto fare la quarta e la quinta insieme. Poi a tredici anni, ho cominciato a lavorare in un’officina meccanica per biciclette, fino ai miei diciotto anni. Ho smesso quando mio fratello e mia sorella, che erano già emigrati in Svizzera, mi hanno detto: «Luigino, vieni qui per un paio di anni, e con i soldi guadagnati ci aiuti a costruire una casa per la mamma». Mia madre viveva in un appartamentino in affitto molto malandato, quando pioveva l’acqua si infiltrava dappertutto. Così ho fatto, e un paio di anni sono divenuti 70 anni!
Dove ha vissuto e lavorato in Svizzera?
A Solothurn, in italiano si dice Soletta. Qui ho lavorato per 44 anni alla Scintilla AG di Zuchwil, una filiale del gruppo Bosch. In quella fabbrica, in cui si producevano accessori per elettroutensili, ho fatto un po’ di tutto. Nel tempo da semplice operaio sono diventato responsabile di una sezione, e sono stato eletto nella commissione del personale come rappresentante dei lavoratori stranieri.
Perché è rimasto in Svizzera?
Ho incontrato mia moglie che veniva dal Friuli. Abbiamo avuto due figli maschi, che hanno oggi 60 e 58 anni. Il più grande ha tre figli. Mia moglie purtroppo è venuta a mancare ventisette anni fa, se n’è andata per un tumore. è stato un colpo durissimo, ma ce l’ho fatta.
I suoi figli e nipoti parlano italiano?
I miei figli sì, perfettamente, ma purtroppo i miei nipoti no. Mio figlio maggiore si è impegnato nel limite delle possibilità, avrebbe desiderato molto che i suoi figli imparassero l’italiano, ma purtroppo è andata diversamente. I miei figli si interessano tanto al loro Paese di origine, con loro discuto spesso di politica.
Lei è stato attivo sul fronte sindacale, tramite il suo incarico di delegato del personale di una ditta tedesca in Svizzera. Si è anche implicato nella vita associativa italiana?
Io e un mio caro amico, Serafino Tomasi, abbiamo fondato la sezione AVIS di Solothurn, l’Associazione volontari italiani del Sangue. Per iniziare abbiamo sfogliato l’elenco telefonico, erano gli anni Settanta e non c’erano tanti italiani con una linea telefonica a casa. Siamo poi andati a bussare alla loro porta per coinvolgerli nell’associazione. Ho anche fatto parte della società filodrammatica di Soletta, e avuto un ruolo in un’opera teatrale di Dürrenmatt, Il matrimonio del signor Mississippi.
Quando è avvenuto il suo incontro con la nostra testata, di cui è uno storico abbonato?
Sin dalle prime edizioni sono legato a questo giornale che all’inizio si chiamava Corriere degli italiani. Il giornale è nato a Zurigo, ma è stato molto utile per tutti i connazionali emigrati in Svizzera. Per farlo conoscere anche a Soletta, negli anni Sessanta ho distribuito alcune copie sul sagrato di una chiesa.
Cos’è cambiato da allora?
Il giornale è cambiato, ma l’ho visto cambiare sempre con interesse. Oggi ci sono molti articoli di fondo, al passo con i tempi, perché i lettori sono quasi tutti laureati ormai e hanno più tempo per leggere. Prima gli articoli erano più corti, con informazioni spicciole, sicure, sempre affidabili. Il giornale parlava dei problemi quotidiani riscontrati dagli italiani in Svizzera, come ad esempio la questione delle patenti auto. Mi ricordo del tempo in cui i connazionali cominciavano a potersi permettere di acquistare un automobile, e avevano bisogno di sapere come ottenere i documenti necessari. Il Corriere rispondeva alle numerose lettere dei lettori con informazioni e dati utili.
Provando a fare astrazione del lutto che ha subito, come è stata la sua vita in Svizzera?
Diciamo che non mi posso lamentare. Al mio arrivo, nel 1954, ho trovato qui mio fratello che era venuto già nel 1947, e mia sorella, in Svizzera da qualche mese. Mio fratello aveva imparato lo Schweizerdeutsch, lo parlava bene e questo ci ha aiutato molto. Ho trovato un buon lavoro, è stato duro come può esserlo il mestiere di ogni operaio, ma mi ha permesso di metter su famiglia e vivere con dignità.
Qual è stato il momento più difficile?
Come tantissimi italiani, ho vissuto la terribile epoca Schwarzenbach. Avevamo acquistato un appartamento in Italia nel 1973, in previsione della nostra espulsione. L’abbiamo rivenduto vent’anni più tardi, nel 1993, quando abbiamo infine capito che potevamo restare in Svizzera, senza aver paura che ci buttassero fuori. Per tutti noi, il trauma Schwarzenbach è durato a lungo. Infine nel 1997 ho acquisito la cittadinanza svizzera.