Tra MUOStri e tarantate, i film italiani a Soletta
Si è conclusa da poco la 60esima edizione delle Giornate di Soletta, lo storico festival svizzero che quest’anno ha visto un’importante partecipazione delle pellicole cinematografiche italiane.
Di Antonella Montesi 6 febbraio 2025
Probabilmente, la crescita delle produzioni italofone è correlata alla recente direzione del ticinese Niccolò Castelli. È comunque un dato di fatto che dall’Italia ci sono belle storie da raccontare; un vero e proprio storytelling, visto che i film italiani e in lingua italiana che abbiamo visto quest’anno al festival di Soletta, e su cui ci siamo concentrati, sono tutti documentari.
C’è subito da dire che il premio del pubblico è andato al film «QUIR» di Nicola Bellucci, una storia di resistenza nella Palermo odierna dove le persone LBGTQI+ cercano uno spazio per poter vivere la propria vita a modo loro. Ma di più grande impatto è per noi «Valentina e i MUOStri», di Francesca Scalisi. Il film racconta, anzi quasi svela, una storia che neanche noi italiani conosciamo bene. Valentina è una ragazza di ventisei anni che vive con i genitori e il nonno nelle campagne di Niscemi, in Sicilia, all’ombra del MUOS, acronimo per Mobile User Objective System, un grande impianto di antenne installato e gestito dagli americani: un sistema di comunicazioni satellitari che serve anche a dirigere i droni americani nell’area del Mediterraneo e dell’Europa dell’Est, Ucraina in primis.
Valentina e la sua famiglia conducono una vita semplice, ma serena. Sono davvero in pace con sé stessi e con il mondo: Valentina non lavora, sta a casa e si occupa dei genitori, il padre ha una patologia cardiaca ed ha sempre più bisogno della figlia, che deve prendere la patente, perché il padre non può più guidare. Il colore nella vita di Valentina è dato dai fiori che crea all’uncinetto: per tutto il film la vediamo armeggiare e riempire di colorati boccioli di lana la propria quotidianità, che di colore ne ha ben poco.
Anche la madre si dedica a lavori ai ferri o all’uncinetto; il nonno, come molti anziani in Italia, sta in famiglia e partecipa silenzioso alla vita in comune; il padre coltiva la grande passione per le piante grasse: file e file di vasi, molti ricavati da vecchie taniche di plastica su cui è incollato l’adesivo «NO MUOS», piante che il padre annaffia, pota, travasa, concima, a cui parla, tutto con grande amore.
Sembrerebbe una vita idilliaca, serenità in famiglia e vita nella natura, se non fosse per la presenza del MUOS. Essì, perché le antenne emettono onde elettromagnetiche altamente pericolose, si pensi che i soldati americani in servizio all’impianto vengono sostituiti ogni tre giorni per non esporli al pericolo, mentre Valentina e famiglia vivono lì da sempre.
Il film termina con un happy end, o almeno una speranza di happy end: Valentina prende in mano la propria vita e decide di andare a lavorare in città. Il MUOS, che il facile gioco di parole lo trasforma in «MUOStri» nel titolo del film, rimane lì, nonostante le ripetute proteste dei cittadini di Niscemi e la nascita di un movimento NO MUOS. Ed alla fine sono i fiori colorati di Valentina a donare la vita alle piante succulente del padre, che da tempo non fioriscono più.
L’altra autentica sorpresa è il documentario di due antropologhe, la tedesca Anja Dreschke e la svizzera Michaela Schäuble, partendo dai filmati storici del grande antropologo italiano Ernesto De Martino, che rivisitano la storia del tarantismo, ed infatti il film si chiama «Tarantism revisited».
Il tarantismo è un fenomeno del Salento, in Puglia, una danza rituale che si trasforma in catarsi e permette a donne disagiate, provenienti da contesti difficili, di liberarsi del «male di vivere». Nel 1959 Ernesto De Martino fa un’operazione innovativa, crea una spedizione per studiare i fenomeni antropologici ed etnologici delle zone depresse del Sud d’Italia. «Gli italiani conoscono il Nepal ed il Tibet, ma non il nostro Sud»: così la voce fuoricampo di De Martino.
L’antropologo sceglie il Salento - ma con le spedizioni si recherà anche in Basilicata - con un gruppo interdisciplinare di studiosi, tra cui una psichiatra, una psicologa e un etnomusicologo. Quello che vanno a studiare è il tarantismo appunto, una valvola di sfogo sociale per le donne che vivono in condizioni difficili, che prende il nome dalla tarantola. Secondo la credenza è dal suo morso che ci si ammala, si cade in un malessere, un vero e proprio male di vivere, che solo ballando fino ad arrivare, come detto, a uno stato catartico, permette di guarire.
Il film attuale riprende filmati storici, donne vestite di bianco che ballano sul sagrato della chiesa di San Paolo, considerato il protettore delle «tarantate». Infatti il 29 giugno, festa dei Santi Pietro e Paolo, la chiesa dedicata ai due santi nella città di Galatina si trasforma in un luogo di rito pagano. In realtà le manifestazioni di tarantismo hanno avuto luogo fino al 1982. Le interpreti erano donne che vivevano una condizione di disagio e il tarantismo era un mezzo per viverlo e farsi accettare dalla comunità, ma in realtà ci si vergognava di questo fenomeno: avere una «tarantata» in famiglia era un’onta.
Il film ha come filo conduttore la corrispondenza epistolare tra un’antropologa della spedizione, Annabella Rossi, e una «tarantata» di Ruffano, altro paese del Salento, chiamata per tutto il film Anna, ma in realtà si tratta di Michela Margiotta, una donna dalla vita e dalla fisionomia sofferte. Desidera vestirsi da sposa, con il velo bianco, ma ha i tratti da uomo, baffi e barba.
Il bello del film, oltre alle immagini in bianco e nero di repertorio, è il legame con i tempi attuali. Il tarantismo oggi è diventato un evento folcloristico interpretato da donne che solo per quel momento diventano tarantate, senza esserlo davvero. E che però vogliono denunciare un altro tipo di disagio, moderno e collettivo: il veleno della taranta che si è trasformato nel veleno della fabbrica dell’Ilva, nella Xylella che ha ridotto gli ulivi salentini in spettri e non a caso il film si chiude con l’immagine di un uliveto devastato.
Selezionando questi due film documentari, le Giornate di Soletta ci fanno riflettere, soprattutto a noi italiani residenti all’estero, sulle nostre radici, ci ridanno la consapevolezza «da dove veniamo» e, ancora di più, «di dove stiamo andando».
Le altre due pellicole italiane in programma al festival sono state «Gloria», di Margherita Vicario, di cui abbiamo già parlato in un nostro precedente articolo sul nuovo cinema italiano (leggi qui), e «Iddu. Racconti dell’isola» di Miriam Ernst. Iddu naturalmente è lui, il vulcano che domina l’isola di Stromboli e che da sempre decide le sorti di chi vi abita e anche dei turisti che vengono attirati proprio dal fascino, pieno di pericolo, del vulcano. L’eruzione del 2019 ha costretto l’isola a confrontarsi con sostenibilità e turismo di massa su un territorio altamente sensibile.