“Finalmente Zurigo!”

bagagli e migranti

di Paolo Barcella

Nei racconti delle emigrate dalle campagne italiane verso la Svizzera del dopoguerra, si incontrano spesso una vivacità e una freschezza sorprendenti. Certo: emigrare non era mai un’esperienza facile. Tanti erano i sacrifici e le persone care lasciate al paese. Le donne costrette ad affidare i propri figli ai nonni e agli zii spesso non si davano pace, sentendo la mancanza delle loro amate creature. Tuttavia, quando partivano sole, le giovani italiane trovavano spesso in Svizzera un ambiente che permetteva loro di diventare autonome, di conoscere meglio se stesse, progettando un futuro a misura dei propri desideri. Per molte ragazze l’emigrazione diventava occasione per condividere la propria condizione di lavoratrici internazionali con le compagne di lavoro o di residenza: molte, infatti, abitavano per mesi o anni nei convitti, normalmente collocati in prossimità delle fabbriche. Quei luoghi presentavano certo limiti e problemi, ma al loro interno si sviluppavano meccanismi di cooperazione, di solidarietà e di aiuto reciproco tra le giovani residenti. Le stesse fabbriche potevano diventare “mondi nuovi”, dove imparare e crescere professionalmente. 

Così Rosalia raccontava l’arrivo a Zurigo, dopo un viaggio iniziato molte ore prima tra le lacrime di sua madre: “Finalmente Zurigo la meta del mio viaggio, scesa dal treno mi diressi verso l’Inducta, dove presi alloggio e dove fui colmata di mille gentilezze, dalle mie compagne d’appartamento: con quale cura cercarono di colmare in me ogni vuoto, di prepararmi con coraggio e dignità al mio lavoro e all’incontro con i miei superiori, care compagne che non dimenticherò mai! Il giorno seguente: la prima giornata di lavoro, il mio primo vero contatto con un mondo, che incominciai ad amare per il suo ordine. La fabbrica non mi sembrò tetra come le fabbriche che avevo conosciuto in Italia; pulita, circondata da giardini verdi, colmi di fiori, allietata persino da uccelli nuovi per me: neri con il becco rosso. Poi, il primo dialogo con il capo del personale, conoscenza con il mio maestro e con le compagne di lavoro! Italiane, spagnole, turche e… svizzere! Ragazze di paesi diversi insieme nello stesso lavoro, insieme nello stesso sforzo di condurre una vita un po’… frettolosa, ma con ordine. Ora mi sono abituata a un tale regime di vita, ma in quel periodo mi sembrava di correre sempre, tuttavia, correvo con gioia, finché con il passare dei giorni la corsa si trasformò in normale andatura svelta!”. 

Ma lavorare significava soprattutto guadagnare e, quindi, conquistare la propria autonomia, il diritto a spendere del denaro liberamente per esaudire un desiderio o, più spesso, per contribuire al miglioramento dell’economia familiare. Tant’è vero che, in qualche caso, maturavano persino forme di riconoscenza nei confronti di un paese che, al di là delle tensioni e dei problemi, permetteva di lavorare e di rendere migliore la vita ai propri cari. 

Raccontava per esempio Annalisa: “L’esperienza più bella è stata quando ho preso il primo salario, devo dire che ho pianto di gioia, perché ero cosciente che non dipendevo più dai miei genitori, anch’io potevo disporre del mio guadagno senza gravare su di loro. Per questa ragione mi sento grata alla Svizzera”. 

Emigrazione, infine, diventava per alcune giovani anche sinonimo di emancipazione, di affrancamento dalla stretta sorveglianza dei genitori, così come di liberazione dai vincoli comunitari caratteristici dei mondi contadini da dove molte di loro provenivano. Le città svizzere, soprattutto le più grandi e industrializzate, autorizzavano al cambiamento dei costumi, alla novità negli stili e nelle pratiche di vita. Graziella, a Zurigo, fece una vera e propria iniezione di voglia di vivere: “Da quando sono venuta in questa città mi sento un’altra. Non sono più la solita ragazzina che porta i vestiti su le ginocchia. Anche se so di essere ancora una ragazzina, mi considero ormai una ragazza adulta. Per me questa città è come una persona perché mi ha fatto cambiare idea sulla vita. Prima credevo fosse una cosa inutile che portasse solo dei dispiaceri. Ma quando ho visto questa gente ho cambiato idea. Sembrano sempre allegri e non si impicciano mai degli affari degli altri e anche se vedono una ragazzina con la minigonna non la criticano, e non la guardano come se fosse una ragazza di strada”. Come in ogni percorso di emancipazione, si vivevano certo anche i rischi e le difficoltà, le tensioni, il rischio di commettere errori, scegliendo. Ma è proprio assumendosi quel rischio, in fondo, che si diventa donne e uomini liberi.

Gli scritti proposti in questo articolo sono testimonianze scritte da giovani italiane tra il 1969 e il 1973. Insieme ad altre sono raccolte e presentate nel libro: Paolo Barcella, Per cercare lavoro. Donne e uomini dell’emigrazione italiana in Svizzera, Donzelli, Roma, 2018.

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