Di guardie del corpo e gelsomini

Per la propria patria o il proprio stomaco
un uomo può scommettere la propria vita; anche per il proprio cavallo.
Mai, mai per una donna.
Abdullah, Ali Babà e i Quaranta Ladroni

14 ottobre 2018.

La mia borsa può stare sul pavimento, gli dico.

«No, no. Ali Babà!»

«Ali Babà» sono i possibili ladri in agguato. Rido di nuovo, come la prima volta che gliel’ho sentito dire.

Ali Babà la Polizia tedesca che ha preso i suoi soldi e la sua carta di credito prima di rimandarlo in Italia.

Ali Babà i governi corrotti. E quelli che si arricchiscono vendendo armi che verranno usate altrove.

Ali Babà anche il governo iraniano.

Io e M. comunichiamo attraverso un mosaico disordinato di inglese, tedesco, google-persiano e tutto il mio italiano gesticolare.

 

“SantaMaria” è un’altra espressione ricorrente. Si accompagna sempre al segno orizzontale sotto la gola.

M. è condannato all’impiccagione, dopo che gli sarà stata rimossa la pelle della schiena su cui è tatuata una riproduzione del Cristo di San Giovanni della Croce di Dalì.

Dieci anni fa M. ha scelto di lasciare l’Islam e abbracciare il cristianesimo. Abbandonare l’Islam per una nuova fede in Iran significa pregare in segreto. Essere colto nell’atto di distribuire copie della Bibbia, come è successo a lui, significa “SantaMaria”, condanna a morte. M. ha con sé l’atto ufficiale emesso dalle autorità iraniane.

«Ironico», gli dico, «Da noi Santa Maria è la madre di Gesù.»

Ma “Maria” in arabo è “Mariam” e allora a M. non sembra ironico. A me mette i brividi.

 

M. è arrivato a Milano cinque giorni fa dalla Germania, restituito all’Italia, Paese del suo primo ingresso in Europa, in applicazione del Regolamento Dublino.

I poliziotti l’hanno prelevato alle tre di notte dalla sua abitazione non lontano da Francoforte; l’hanno ammanettato, gli hanno impedito di fare la valigia («Non c’è tempo») e così lui ha uno zainetto nero con un cambio di vestiti e perso gli altri suoi effetti personali.

Mi mostra il suo permesso di soggiorno che scade nel futuro, il 26 ottobre. Le autorità tedesche agiscono in questo modo, in anticipo, senza preavviso e nella notte, per prevenire che tu, richiedente asilo, ti renda irreperibile. Anche in Svizzera fanno così.

 

Il suo appuntamento in Questura per la domanda di asilo è martedì 16 ottobre.

Al CASC (Centro Aiuto Stazione Centrale) gli hanno detto per tre volte che non ha diritto a un alloggio fino a dopo il colloquio. E così le prime due notti lui dorme sull’asfalto, appena fuori dai portici della Stazione Centrale. Il giubbino nero e un asciugamano bianco avvolto intorno alla testa non bastano per non sentire il freddo.

Usare il bagno costa 1 euro. Caricare il cellulare non si può e la batteria di riserva è stata rubata dalla tasca laterale dello zaino mentre M. dormiva.

Un’altra volta M. si è svegliato mentre un uomo molto grande cercava di derubarlo. M. gli ha dato una testata e lo ha immobilizzato, poi ha chiamato le forze dell’ordine. Gli agenti sono venuti e hanno lasciato andare il ladro e M. non ha capito perché.

Nel frattempo qualcuno in Germania contatta A., un richiedente asilo afgano da cinque mesi a Milano, per chiedergli che permetta a M. di caricare il telefono e lavarsi.

M. ha un’ottima reputazione e così A. lo invita a restare per una notte e intanto mi contatta per chiedermi aiuto.

Io sono l’indigena; io dovrei avere le risposte. Ma io so solo del CASC e così siamo punto e a capo. Ogni struttura di mia conoscenza mi conferma che M. non può essere accolto fino a dopo il colloquio.

Io e A. decidiamo di ospitare M. due notti ciascuno.

Entrambi stiamo per ospitare un estraneo, ma né io né A. vediamo una vera alternativa a quella che ci sembra solo umana decenza.

 

In Iran M. era campione nazionale di body building e kickboxing.

Quando ho visto la sua fotografia ho pensato: magari muoio stanotte.

Poi ho accantonato i miei timori e ho chiesto ad A. di tradurre per me: «Sono femmina e la mia Casa è un monolocale. Ti crea disagio condividere la stanza?»

M. ha detto di no, che non è a disagio. «E grazie, grazie davvero, perché dormire in strada è terribile.»

Difficile immaginare una persona come lui in difficoltà. Al campo di accoglienza in Germania spostava blocchi di cemento da quaranta chili l’uno a mani nude e non si lamentava mai, anche se il lavoro non era retribuito. E così mi tocca concludere che stiamo scrivendo un capitolo di Storia in grado di rompere qualsiasi essere umano.

 

Noi solitari per scelta abbiamo vite piene di noi stessi, tanti conoscenti e pochi amici stretti.

Perciò condividere 48 ore con un estraneo, anche una brava persona eh, è fattibile, certo, ma con una certa ansia.

Io poi, ecco, buona proprio non mi sento.

Poco paziente. Ruvida.

Simpatica cinque minuti.

Gli amici mi amano a piccole dosi.

Figuriamoci gli altri.

 

Provare a fare la cosa giusta è una fatica.

Perché tu la fai, e tutto quello che ne consegue è di gran diritto tutta roba tua: gioie, fastidî e guai.

Ma se non la fai, sei il tuo stesso testimone e giudice.

E Dante secondo me racconta bene cosa ti meriteresti in ogni caso.

 

M. ha muscoli importanti, sì, però è meno alto di quanto non avessi immaginato, e quando gli dico «Meno male», lui ride.

Comunque sembra uno di quegli omini giocattolo G.I. Joe con i muscoli leggibili attraverso la maglietta di plastica dipinta.

Non gli permetto di mangiare il contenuto della busta di Burger King acquistato prima del mio arrivo. Sgrido sia lui sia A. per lo sfregio. «Adesso ti faccio la pasta.»

 

Essere prudenti è importante. Ma a volte i nostri timori più bui sono mostri di nostra creazione.

Per le successive trentasei ore, io sono una diva e M. mi protegge dal mondo.

«Tu mi ospiti, e allora io sono la tua guardia del corpo.»

Il suo lavoro a tempo pieno è scostarmi dai pali, deviare biciclette e passanti sulla mia traiettoria o, se troppo tardi, mettersi tra me e loro.

Io raccolgo fiori di gelsomino caduti dai balconi, guardo il cielo azzurro a naso insù e annuso l’aria che dal lunedì al venerdì, nella città che mi dà un lavoro, ha un altro odore.

Andiamo insieme a incontrare Giulia per la colazione, poi in biblioteca e in libreria.

«Caffè, libro. Caffè, libro. Caffè, libro. Tanto M. porta tutto.» E ride. Perché ha rifiutato categoricamente di lasciarmi portare pesi, ma nella borsa di tela adesso abbiamo sei libri, di cui tre presi in prestito, e un DVD da restituire il 27 ottobre. («Ma poi quando li leggi?», mi chiede perplesso.)

 

Ed è subito domenica.

Per me non è una domenica qualsiasi. È la Domenica di Carta 2018. Ho scelto due appuntamenti e due città. Poi la sera ritorno alla città senza il profumo dei panettieri.

Ho mostrato a M. la chiesa vicino a Casa e gli ho spiegato i suoni delle campane quando indicano le ore. Gli ho insegnato come ci si genuflette dopo il segno della croce quando si entra in chiesa.

È emozionato. Mi mostra il video del proprio battesimo in Germania cinque mesi fa, lui grande grande, con una veste bianca.

«Ricorda di abbassare la suoneria del telefono. Fotografie sì, ma senza il flash e mai durante una celebrazione. Dopo la messa, magari fai una passeggiata in Darsena oppure vai al parco. Vedrai che ti diverti.»

Massimo, mio Grande Amico e ora Angelo Custode, mi diceva sempre, «Tutti mi trattano come un ammalato. Tu no. Tu mi tratti normalmente.»

La solitudine nello stato di sentirsi diversi.

Negli occhi di M. leggo questo: «Avevo dimenticato com’è essere trattato da persona normale.»

Così, per sicurezza, prima di andarmene, gli spiego di nuovo la raccolta differenziata e il trucco di riusare la stessa bottiglietta di plastica tante volte: l’acqua del rubinetto è buona e tu risparmi e non inquini.

 

L’appuntamento in Questura è martedì.

Stasera e domani una famiglia di Milano ospiterà M.

Anche loro non l’hanno mai incontrato, ma come A. si è fidato del suo amico in Germania e io mi sono fidata di A., la famiglia si è fidata di G. che a sua volta si è fidato di me quando gli ho chiesto aiuto.

E qualcuno vedrà in questo una catena di rischi mal calcolati e autentica incoscienza. O pura stupidità. O illegalità.

Io dico che questa ragnatela sbilenca di persone che si alleano per cercare di essere gentili con uno sconosciuto in difficoltà è la sola cosa che ci può salvare.

Perché non esiste muro che possa proteggerci dalla nostra paura.

E anche perché al posto di questo estraneo spaventato potevo esserci io.

 

Con una traduzione giurata della propria condanna a morte, M. ha continuato a tornare in Questura per mesi, ogni volta rinviato a una nuova data. Non gli è mai stato fornito un alloggio. Abbiamo trovato per lui un alloggio sicuro, ma non aveva il permesso di lavorare né alcun sostegno finanziario da parte del sistema. Lottando con l’umiliazione di dover dipendere da donazioni e beneficenza per i pasti quotidiani e il denaro per piccole spese personali, ha lasciato l’Italia per andare in Belgio, dove ha presentato una nuova domanda di asilo, la terza in Europa. Di fronte a una nuova decisione Dublino che lo avrebbe trasferito ancora una volta in Italia, ha deciso di tornare in Iran e abbracciare la morte.

 

“M. è condannato all’impiccagione, dopo che gli sarà stata rimossa la pelle della schiena su cui è tatuata una riproduzione del Cristo di San Giovanni della Croce di Dalì” (Fotografia: Cristo di San Giovanni della Croce, di Salvador Dalì. Fonte: Dalì, di Gilles Néret, edito da Taschen)
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