Alda Merini, il manicomio e il desiderio della felicità

di Fabio Buffa

Il 21 marzo Alda Merini, la poetessa dei Navigli, avrebbe compiuto 90 anni. Tra le più grandi poetesse del 900 italiano, è stata un’intellettuale capace di rivoluzionare gli schemi della poesia e di fare luce sulla disumana condizione dei manicomi, quasi in concomitanza con l’avvento della legge Basaglia. La Merini nacque a Milano, a Porta Genova, nel 1931: a 12 anni aiutò la madre a partorire, poco prima di fuggire di casa per l’arrivo degli aerei che avrebbero bombardato la città. Era la Seconda guerra mondiale e Alda, con la mamma e il fratellino, sfollò a Vercelli, dove per qualche tempo troverà rifugio nel casolare di una zia. Finita la guerra, la sua famiglia si riunisce nella città meneghina, in un locale malconcio. Alda inizia a scrivere poesie: ha 15 anni e le sue opere vengono notate da Giacinto Spagnoletti, giornalista, poeta e romanziere, che ne apprezza le doti letterarie e la recensisce. Ma i conflitti in famiglia sono aspri; il padre strapperà in mille pezzi una recensione su un lavoro di Alda, dicendo alla figlia che la poesia non dà il pane. I forti attriti tra le mura domestiche la portano ad una condizione di fragilità psichica.

Ma non perde la forza di scrivere, così nel 1950 lo stesso Spagnoletti le pubblica tre opere nell’Antologia della poesia italiana contemporanea. Nel 1953 Alda Merini sposa Ettore Carniti, un operaio panettiere (zio del dirigente della Cisl Pierre Carniti). Da Ettore la poetessa avrà quattro figlie (tra il 1955 e il 1972). Lei era una donna di cultura, affamata di “sapere”, il marito era una persona semplice, poco incline ad apprezzare le passioni della moglie; erano due caratteri forti, per nulla disposti a “cedere” durante le liti. In Alda emerge la grande sensibilità per il mondo che la circonda: il mondo però non la capisce e trasformerà quella sensibilità in fragilità e malattia psichica. Una notte, durante una violenta lite con il marito, quest’ultimo chiama “soccorso”. Quel soccorso è il manicomio Paolo Pini di Milano.

Cominciano gli anni 60 e per Alda si aprono le porte di un inferno, che terminerà solo nel 1979, quando verrà dimessa definitivamente, senza più rientrare in istituto. La degenza della poetessa è lunga, anche se inframezzata da sporadici ritorni a casa, durante i quali concepirà le altre figlie.

Gli anni del manicomio sono anche quelli del “blocco” mentale e intellettuale. Poi, dal 1979, la Merini diventa un fiume in piena di parole, concetti, pensieri e denunce. Una nuova vitalità romperà gli argini della “reclusione”, della malattia e dell’alienazione, permettendole di scrivere straordinarie poesie. Scrive “La terra Santa”, che cinque anni dopo verrà inserita nella raccolta di quaranta opere omonima stampata da “Scheiwiller”.  “Ho conosciuto Gerico, ho avuto anch’io la mia Palestina, le mura del manicomio erano le mura di Gerico e una pozza di acqua infettata ci ha battezzati tutti (…)”.  Poi ancora ne “Il dottore agguerrito nella notte”: “Il dottore agguerrito nella notte viene con passi felpati alla tua sorte, e sogghignando guarda i volti tristi degli ammalati, quindi ti ammannisce una pesante dose sedativa per colmare il tuo sonno e dentro il braccio attacca una flebo che sommuove il tuo sangue irruente di poeta (…)”.

Alda Merini nelle poesie ha sempre raccontato le proprie inquietudini, la solitudine (cercata e imposta), la morte, il dramma. Ma guai a paragonarla a Baudelaire, ai poeti maledetti. Si arrabbiava di fronte a tali raffronti. Molte delle sue creazioni sembrano quasi voler mettere alla prova le personalità più sensibili per scovare la gioia, la speranza, perfino la fede in Dio. Per lei la poesia non è infelicità, ma gioia. “Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia legalo con l’intelligenza del cuore. Vedrai sorgere giardini incantati e tua madre diventerà una pianta che ti coprirà con le sue foglie”; in “Bambino”, mentre in “Spazio” scriveva: “Spazio spazio, io voglio, tanto spazio per dolcissima muovermi ferita: voglio spazio per cantare crescere errare e saltare il fosso della divina sapienza”.

Alda definiva la poesia come qualcosa di scomodo, di insoluto. E il poeta? Chi è il poeta? “E’ un filosofo, è un cronista, è un osservatore del proprio tempo -rispondeva- il problema per i poeti è che oggi la gente non pensa più, non sogna più, non ne ha il tempo; invece, il poeta pensa e sogna ed è per questo che è considerato un lazzarone”. Ma non è così: “Quasimodo definiva i poeti, operai del pensiero”. Poi, amava sottolineare che “se i santi sono i figli di Dio, i poeti sono i suoi nipoti”. 

Nelle lunghe riflessioni che Alda Merini concedeva ai propri interlocutori emerge una grande passione per l’Amore: si considerava una donna che non ha mai avuto amore ed è per questo che l’ha cantato così tanto. Per lei l’amore aiuta a crescere, perché per crescere occorre avere e nascondere un segreto e l’amore è il più grande dei segreti. L’amore Alda Merini lo riferiva alla musica -lei imparò giovanissima a suonare il pianoforte-, perché entrambi sono linguaggi universali.

Amore e dolore in Alda Merini sono due concetti che interagiscono molto tra loro: il dolore è come la morte, qualcosa che non puoi evitare, e se non puoi evitarlo tanto vale affrontarlo. “Il dolore è come il lupo, se si accorge che lo temi, per te è finita”.

La poetessa morì il 1novembre del 2009 a causa di un tumore, lasciandoci una preziosa eredità intellettuale. La sua prima raccolta di poesie, edita nel 1953, è titolata “La presenza di Orfeo”; due anni dopo esce “La presenza di Dio”, dove emerge la solitudine che prova di fronte ad un marito che lei riteneva distaccato, mentre nel 1961 esce l’ultima raccolta, prima di un buio intellettuale durato anni: “Tu sei Pietro”.

Dopo la morte del marito, nel 1983, decide di risposarsi: lo fa con un ex medico pugliese, ma la malattia di quest’ultimo porterà alla loro separazione. Nel 1986 uscirà “L’altra verità. Diario di una diversa”, mentre tra il 1989 e il 1992 conosce anni di tranquillità e serenità, periodo fertile per altre opere, tra cui l’antologia “Vuoto d’Amore”. 

Dopo aver vinto nel 1993 il premio “Librex Montale”, nel 96 il suo nome viene proposto per il premio Nobel.

Nascono interazioni con cantanti -Milva e Vecchioni- per mettere in musica alcune sue opere; progetto sublimato con la collaborazione proposta al maestro Giovanni Nuti.

Forse Alda Merini ha trovato quella pace interiore neanche mai cercata, ma certamente negata per gran parte della sua vita, solo negli ultimi anni. La sua casa era ricca di oggetti, testimoni di un percorso pieno di buche, con le pareti ricoperte da numeri telefonici, disegni e appunti, quasi fossero un taccuino; poi c’erano le sue inseparabili Diana blu, le sigarette a cui Alda toglieva il filtro per respirare a pieni polmoni una nicotina che (ci permettiamo di dire) divenne la metafora della sua vita, da respirare profondamente sentendone tutta la densità delle emozioni.   

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami