Prendersi cura di sé. Prendersi cura del mondo

Ora più che mai abbiamo bisogno di “prenderci cura”, di pensare e ritornare a dialogare con l’Altro. Il mito racconta che, un giorno, nell’attraversare un fiume, l’attenzione di Cura sia stata attratta dal fango argilloso. Pensosa, senza bene rendersi conto di quello che andava facendo, Cura si mise a modellarla, traendone la figura di un uomo. Fu allora che sopraggiunse Giove, a cui la dea chiese di infondere spirito vitale nella scultura da lei plasmata, cosa a cui Giove acconsentì con facilità. A questo punto, Cura chiese di poter imporre il proprio nome alla creatura, ma il dio glielo negò, sostenendo che il nome di quell’essere doveva provenire da lui, che gli aveva infuso la vita. Ne nacque una disputa, che si complicò quando a essa si unì la Terra: questa riteneva, infatti, che il nome avrebbe dovuto essere il suo, essendo sua la materia con cui era stata plasmata la creatura. Per risolvere la diatriba, fu chiamato a pronunciarsi Saturno, il cui giudizio distribuì le rivendicazioni: a Giove, che aveva infuso lo spirito sarebbe toccato, alla morte di quell’essere, di rientrare in possesso dell’anima; alla Terra, della cui materia l’essere era composto, dopo la morte sarebbe tornato il corpo; ma a possederlo durante tutta la vita sarebbe stata l’Inquietudine, la prima a plasmarlo. Il nome, invece, non sarebbe toccato a nessuno dei tre contendenti: l’essere si sarebbe chiamato”uomo”, perché creato dall’humus.

Nel vocabolario platonico ed ellenistico, per significare la cura compare la parola epimeleia, che designa la cura come sollecitudine, attenzione, occupazione, ma anche scienza. Il termine inglobava anche l’indicazione di una serie di pratiche di auto-formazione: il dialogare con sé stessi, il meditare sulle esperienze passate per comprendere il senso, lo scrivere i propri pensieri e le proprie emozioni, in modo tale da poter disporre del materiale necessario per arrivare a una conoscenza di sé continuativa. Possiamo pensare al conosci te stesso socratico. La cura di sé nel mondo antico significava anche dedicarsi a dare forma etica ed estetica alla propria vita, ovvero inventarsi la vita. Il greco antico aveva due termini per significare la vita: zoe, la vita come rigenerazione delle forme viventi, e bios, un segmento di zoe designante la singolarizzazione della vita che, come forma definita, era destinata a dissolversi. Proprio in bios stanno tutte le nostre vite, caratterizzate dalla finitudine, da cui consegue che ciò che ci spetta è solo l’amministrazione della durata attraverso il far fiorire e la trasformazione della base biologica in esistenza. Tale amministrazione è propriamente un’attività etica, ma poiché l’ethos dà forma, è anche un’operazione estetica.

Nel mondo greco antico il “conosci te stesso” era quindi la prima azione per praticare la cura di sé.

La filosofia post-moderna del ‘900 mette l’accento sulla condizione dell’uomo come esserci, l’essere in un mondo. Husserl, Heidegger, Lévinas e Hanna Arendt contribuiscono a una nuova riflessione sull’essere che colloca al centro la relazionalità dell’esserci: l’essere umano è originariamente con altri, è insieme ad altri (M. Heidegger, Essere e Tempo). In questa nuova ontologia della relazionalità, l’identità del singolo è strutturata dalle relazioni: l’uomo è l’insieme delle relazioni che organizzano il suo campo vitale.

Luigina Mortari, nel suo libro “Aver cura di sé”, edito da Cortina nel 2019 insiste sul tema dell’educazione: “prendere a cuore la propria esistenza è un atto che si impara e che può essere insegnato da chi possiede esperienza. Offrire all’altro degli elementi che consentano di assumersi la responsabilità di auto-formarsi nell’avere cura di sé è l’investimento maggiore che si può immaginare a proposito dei più giovani. In questo modo si insegna la libertà e il dialogo”.

La filosofa Elena Pulcini, purtroppo scomparsa lo scorso anno, sottolinea il concetto di responsabilità come cura, nel suo libro “La cura del mondo” pubblicato nel 2009 da Bollati & Boringhieri. La filosofa ci invita ad essere consapevoli della propria vulnerabilità e dipendenza proprio perché se vogliamo riconoscerci come soggetti in relazione dobbiamo farci carico dell’Altro. Abbiamo la responsabilità di contribuire a correggere le patologie prometeiche e narcisistiche.

Per diventare noi stessi abbiamo bisogno di incontrare l’Altro, altrimenti è impossibile sapere cosa ci anima, impossibile uscire dalle nostre prigioni identitarie. “Ogni vita vera è un incontro” affermava il filosofo austriaco Martin Buber.

“Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”, scrive Adorno nei Minima Moralia. Tuttavia, è importante un certo pudore nel rivelare la nostra vulnerabilità. Mostrarci vulnerabili deve coincidere con la sensibilità all’ascolto dell’Altro.

Elena Pulcini, nei suoi scritti, ci esorta a un vivere responsabile poiché viviamo in una situazione paradossale in cui lo sviluppo del nostro potere coincide con la minaccia stessa alla nostra sopravvivenza, nonché alla vita delle generazioni future messa a repentaglio dagli effetti del nostro agire.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami