Curare lo spazio per curare noi stessi

di Andrea Foppiani

Abitare consapevoli dentro e fuori le mura domestiche

In questi giorni dalla forzata indole domestica, un po’ per curiosità indotta (la didattica online del semestre verte sul rapporto tra architettura e città, intesa come paesaggio del nostro vivere), un po’ per quell’istinto che guida la propria mano quando si sta per scegliere la prossima lettura, ho soppesato più volte, tra gli ultimi libri aggiunti alla mia raccolta, un volumetto blu chiaro, regalo di una persona molto vicina (e pertanto implicitamente indotta all’acquisto) che accosta due parole di estrema attualità: città e cura.

Il libro in questione, a cura di Margherita Vanore e Massimo Triches, si intitola infatti “Del prendersi cura. Abitare la città-paesaggio” (Quodlibet, 2019) ed è una raccolta di scritti di addetti ai lavori, ricercatori ed esperti, volta a mettere in luce la relazione esistente tra i luoghi dell’abitare e la pratica stessa del nostro viverli, condividendo spazi di cui siamo umanamente spinti ad appropriarci attraverso dinamiche di cura, costruzione, coltivazione. Se è vero infatti che le città necessitano di prospettive progettuali che ne valorizzino le qualità insite, è altrettanto vero che queste azioni di cura dello spazio circostante si possano trasformare in dinamiche curative dei rapporti sociali che vi hanno luogo, offrendo spazio al benessere delle persone. Questo, in breve, il significato del nome del Progetto di Ricerca Nazionale (PRIN 2015) a cui fa capo questa pubblicazione: “La città come cura e la cura della città”.

Due parole così oggi fanno pensare con angoscia ad una sola cosa, evocano il rischio e la speranza che giorno dopo giorno catalizzano la nostra attenzione, nell’attesa di poter tornare a vivere intensamente la città delle relazioni là fuori. Nel frattempo però si presenta alla moltitudine di persone che popolano le proprie case dalla mattina alla sera, l’opportunità di riflettere sul senso delle azioni che inconsciamente si sono sempre ripetute là fuori, di cui ora si sente vivamente la mancanza. Passeggiare tra i filari di alberi e le auto parcheggiate, sedersi su una panchina al sole, afferrare una porta lasciata semi-aperta per entrare in un negozio, sono momenti come altri nel vissuto quotidiano, avvengono sistematicamente ovunque, ma tante volte non ci colgono pronti a percepirne il valore. Un valore che non risiede solo nelle soggettive predisposizioni di ciascuno, ma ha anche a che vedere con lo scenario in cui di solito ci muoviamo distratti.

In queste settimane, passando frettolosamente attraverso vie semideserte, silenziose, non vediamo l’ora di rientrare al sicuro nelle nostre abitazioni, ma inevitabilmente ci coglie, quasi di sorpresa, un alito di aria fresca e leggera, molto più fresca e leggera del solito, e allora ci guardiamo attorno, cogliendo la forma della città, rimasta chiaramente esposta, quasi statica, a ricordarci di essere sempre lì, teatro del nostro quotidiano vivere. Ed è così che, spostando per un momento l’attenzione dalla presente introversione, ci possiamo rendere conto di un’altra necessità, spesso poco considerata da chi calca quotidianamente il suolo pubblico: la cura del paesaggio. Paesaggio inteso come insieme di luoghi e significati, che dipendono da una serie di azioni, dinamiche, complessi meccanismi sociali e spaziali; spesso negletto, privato dell’attenzione che meriterebbe, della cura che lo renderebbe più abitabile, più a misura d’uomo.

C’è dunque qualcosa di nuovo, d’altro e di coraggioso a cui pensare, un obiettivo da porci all’uscita del tunnel, un grande bisogno espresso da parte della città che ci aspetta là fuori. Come l’isolamento ci ha fatto riscoprire il valore della cura di noi stessi, entro le mura domestiche, riorganizzando gli interni della nostra vita privata, così dovremmo dare più importanza, spendere più attenzione al prendersi cura di ciò che sta dall’altra parte della parete, per le strade, lungo i marciapiedi, nelle piazze: lo spazio di relazione.

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