Gli Jenisch in Svizzera: una storia di persecuzioni

di Edoardo Pivoni

Nel 2017 uscì il film italiano “Dove cadono le ombre” di Valentina Pedicini, che racconta una storia atroce e contemporanea della Svizzera moderna: il genocidio degli Jenisch in Svizzera per quasi tutto il Novecento, anche noti come “zingari bianchi” (spesso dispregiativo, in tedesco: Weiße Zigeuner, in francese: Tziganes blancs). Centinaia e centinaia di bambini “zingari” furono rinchiusi in ospedali psichiatrici od orfanotrofi e poi abusati, sterilizzati, sottoposti a elettroshock per estirpare loro il nefasto gene del “nomadismo” e renderli persone “normali”, da affidare a nuove famiglie di svizzeri “puri”.

Chi sono gli Jenisch? L’origine non è certa, ma essi si definiscono diretti discendenti dei Celti. Comunque dopo la Seconda Guerra Mondiale, su espressa richiesta di una loro rappresentanza mandata alla Romani Union, furono accolti nella comunità degli zingari. La Svizzera, con 35.000 unità, è la quarta nazione con il maggior numero di Jenisch; di questi si calcola che 5.000 siano nomadi. Per quanto detto, mentre le popolazioni romani (Rom, Sinti, Kalé, Romanichals) sono etnie di derivazione indiana, gli Jenisch sono di origine germanica e hanno un loro proprio idioma. Ci sono tracce che indicano la presenza di gruppi Jenisch in Svizzera dall’XI secolo e in Germania nel XIII secolo. L’espressione Fahrendes Volk (“popolo errante”) è stata utilizzata nel linguaggio svizzero-tedesco fin dal Medioevo. Gli Jenisch, così come i Rom e i Sinti, furono aspramente perseguitati nella Germania nazista, rinchiusi nei lager, e pagarono un alto prezzo in termini di vite umane.

In Svizzera è attestato già nel 1825, a Lucerna, che un gruppo di Jenisch fu processato per crimini contro la società. Sotto tortura hanno confessato migliaia di crimini, e furono condannati a pene detentive. Furono loro sottratti i figli con l’intenzione di “rompere” le famiglie allo scopo contrastare la cultura, la lingua e i modi di vita di una comunità che non rifletteva gli ideali d’ordine dell’epoca. Un secolo dopo, gli Jenisch subivano ancora, nella Confederazione, un tentativo di sterminio scientifico che terminò solo nel 1975. Secondo i parametri applicati dalle autorità elvetiche, i nomadi erano considerati pericolosi asociali irrecuperabili, da tenere a bada con metodi repressivi. Il fatto di essere cittadini svizzeri non proteggeva gli Jenisch dal disprezzo e dall’ostilità. A occuparsi di loro, fino agli anni ’20, erano stati i Comuni e i Cantoni. Nel 1926, in pieno clima di cultura eugenetica (quell’insieme di teorie e pratiche miranti a migliorare la qualità genetica di un certo gruppo d’individui) e di pulizia della razza che spirava anche in Svizzera, un insegnante di ginnasio, Alfred Siegfried, espulso dall’insegnamento per pedofilia, diventò responsabile della sezione Scolarità Infantile della fondazione Pro Juventute, quell’ente a “favore dei giovani” noto per la vendita annuale di francobolli molto ambiti dai filatelici professionisti e dilettanti non solo svizzeri. Convinto della necessità di ridurre il numero degli Jenisch attraverso la sterilizzazione e il divieto di matrimonio, fondò il programma Hilfswerk fur die Kinder der Landstrasse (“Opera di assistenza per i bambini di strada”) che rimase attivo fino al 1972. A dirigerlo venne designato lo stesso Siegfried. Nel 1943 Siegfried tenne a Zurigo una conferenza nella quale espresse in modo esplicito gli scopi, i metodi e l’ideologia alla base della propria attività: gli Jenisch erano definiti “vagabondi”, “una piaga” della società. Poco importava il loro comportamento reale; ciò che contava, secondo Siegfried, era la loro appartenenza etnica. Successivamente, nel 1970, il governo svizzero condusse una politica semi-ufficiale che verteva a istituzionalizzare i genitori Jenisch come “malati di mente” e a fare adottare i loro figli da cittadini svizzeri, nel tentativo di eliminare la cultura zingara in nome del miglioramento della società locale. Mariella Mehr, nata a Zurigo nel 1947 da una famiglia Jenisch, racconta del programma attuato dall’associazione svizzera Pro Juventute dal 1926 al 1974 per il recupero dei bambini di strada e poi tradotto in un dramma nazionale, accusato di genocidio.

La causa legale si concluse nel 1987: la Confederazione elvetica si scusò con gli Jenisch, riconoscendo la propria responsabilità morale e politica. Non si conosce il numero esatto delle vittime, principalmente bambini, che sembra oscillare tra i 585, certificati dagli archivi della Pro Juventute, in gran parte secretati per un secolo, e i 2.000 stimati. L’intervento eugenetico, tramite l’impedimento di matrimoni, la limitazione delle nascite, le sterilizzazioni, le privazioni della libertà, incise pesantemente sulla comunità Jenisch che ne uscì ferita nello spirito e indebolita demograficamente. Tra i casi noti, ricordiamo Robert Huber, politico svizzero di etnia Jenisch, che da bambino fu lui stesso vittima del programma “Figli della strada”. Ruth Dreyfuss, ex consigliere federale e presidente della Confederazione svizzera nel 1999, affermò in proposito: «Le conclusioni degli storici non lasciano spazio al dubbio: […] è un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita della maggioranza.»

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