Il voto degli italiani all’estero, polemiche sull’opzione del voto inverso

L’intervista a Toni Ricciardi, eletto consigliere del CGIE in Svizzera

A marzo 2023 gli italiani in Italia e all’estero saranno chiamati a rinnovare il Parlamento. Nel frattempo, la rappresentanza degli italiani all’estero nel Parlamento è stata “decapitata”: alle prossime elezioni politiche saranno eletti 4 senatori e 8 deputati (invece che 6 e 12). Ma sul voto all’estero si è riaccesa anche la discussione riguardante il sistema di voto. Il Ministro degli Affari esteri Luigi di Maio, in un’audizione alla Giunta per le Elezioni della Camera sul “voto degli italiani all’estero”, ha ipotizzato l’introduzione della famosa “inversione dell’opzione”. Una proposta che ha immediatamente innescato molteplici reazioni.

Toni Ricciardi

Ne parliamo con Toni Ricciardi, eletto consigliere del CGIE in Svizzera, voce molto ascoltata in emigrazione, che per altro conosce bene essendo docente di Storia delle migrazioni all’Università di Ginevra.

Professor Ricciardi, anzitutto può chiarire ai nostri lettori cosa vuol dire “inversione dell’opzione di voto”?

“La legge 459/01 dà la possibilità, a chi lo desidera, di votare in Italia nella sezione elettorale in cui si è iscritti, previa opzione da esercitare ogni volta presso la competente autorità consolare. Con l’inversione dell’opzione proposta dal governo, gli italiani all’estero dovrebbero manifestare preventivamente la volontà di votare in loco, per corrispondenza, iscrivendosi all’apposito registro elettorale. Una prassi già sperimentata nelle ultime due tornate elettorali per il rinnovo dei Comites”.

Con quale esito?

“Fallimentare. In discussione non è di per sé l’inversione dell’opzione, che esiste anche per altri paesi come la Svizzera, dove un cittadino che vive all’estero può registrarsi sempre, quindi optare una volta, che sarà valida per sempre e può farlo in qualsiasi momento. Nel caso italiano, aprire una finestra d’iscrizione per breve tempo senza un’adeguata comunicazione capillare, tende a limitare la partecipazione. Inoltre, sotto il profilo politico la procedura rasenta l’incostituzionalità. Infine, si lascerebbe il voto in mano a gruppi organizzati”.

Il Ministro Di Maio ha sottolineato le motivazioni di tale scelta, soprattutto di ordine economico. Ma si può piegare un diritto costituzionale, visto il precedente dei Comites, al risparmio di pochi milioni di euro?

“Per fare votare le comunità italiane all’estero servono tra 28 e 31 milioni di euro. Complessivamente per le ultime politiche l’Italia ha speso più di 400 milioni di euro. Il costo è dato per oltre il 60% dai seggi proporzionalmente individuati in base al peso demografico. In un comune italiano una sezione elettorale viene tagliata o aperta se aumenta o diminuisce la popolazione. L’estero è l’unica “regione” d’Italia che vede aumentare la popolazione. Inoltre, se il costo in Italia è proporzionale, lo stesso dovrebbe accadere con l’estero. Pesiamo il 10% e dobbiamo costare il 10%. Oggi per il voto all’estero si spende meno di tale percentuale. Per giunta i costi per i seggi sono tutti a vantaggio dell’Italia, dove avviene lo scrutinio del voto, e non delle comunità emigrate. Si spende la metà per pagare scrutatori e presidenti in Italia, mentre lo si potrebbe fare direttamente all’estero come negli altri paesi. Se qualcuno pensa che il risparmio si ottiene con la mera stampa e invio, ci stiamo prendendo in giro”.

La digitalizzazione dei servizi, il refrain invocato anche per il voto all’estero. Come valuta questa suggestione, visti i ritardi accumulati?

“Un processo inevitabile che va accompagnato. La composizione delle nostre comunità all’estero è molto variegata. La digitalizzazione funziona per determinate fasce di persone, le altre vanno tutelate al pari di chi sa operare da solo. Il ruolo dei Comites e dei patronati deve essere decisivo. Infatti, in Svizzera stiamo aiutando diversi Comites a predisporre “sportelli sociali”, in collaborazione con i patronati, per le persone più anziane e coloro che non hanno padronanza con lo strumento. Il problema non è la tipologia del servizio, bensì la tutela da garantire a chi non è in grado di usarlo”.

A meno di un anno dalle elezioni politiche 2023, non le sembra che il governo dovrebbe lavorare a migliorare le procedure anziché ipotizzare modifiche che potrebbero assestare un colpo mortale al voto all’estero?

“Serve da tempo la modifica della 459 (legge elettorale per l’estero), il taglio rende necessario un aggiustamento. L’Europa che pesa il 55% di tutta la comunità nel mondo, a legge vigente avrà solo il 35% della rappresentanza alla Camera, per non parlare del Senato, che ad ogni ripartizione vede assegnarsi un solo senatore. Da tre anni una nostra proposta di modifica giace nei cassetti del parlamento. Occorre garantire la territorialità della rappresentanza con collegi piccoli dove si costruisce un rapporto stretto tra eletti ed elettori”.

Già nella XVI legislatura furono avanzate proposte concrete per ovviare a quelle che Di Maio chiama “difficoltà endogene”, ma in concreto la “messa in sicurezza del voto” non è uscita dalle stanze delle audizioni.

“Fin quando non si persegue l’interesse generale, ma esclusivamente quello particolare non ne caveremo un ragno dal buco. Questa è materia parlamentare. Inoltre, vorrei conoscere i costi che al momento non conosce nessuno: il dettagliato su come vengono spesi i soldi per il voto all’estero. Quanto viene speso per l’invio, la stampa, quanti di questi soldi sono spesi in Italia? Quando si ragiona bisogna farlo con cifre e numeri alla mano, il resto sono chiacchiere”.

Intanto la comunità degli italiani nel mondo aumenta di anno in anno. Al tempo delle riforme costituzionali essa era “una risorsa strategica”, e ora?

“I cittadini all’estero dal 2006 ad oggi sono pressoché raddoppiati, da 3,4 siamo saliti a oltre 6,5 milioni e parimenti, però, gli investimenti per queste comunità hanno seguito il processo inverso. Per garantire servizi devi migliorarli, renderli più efficienti ed efficaci, ma per farlo devi investire risorse. Ancora una volta, il bilancio dello Stato deve investire proporzionalmente le risorse in base alla popolazione. Da due secoli non avviene in Italia e solo da qualche anno si sono fissate le proporzioni tra territori. Lo stesso deve valere anche per l’estero. Pesiamo il 10%, ci spetta il 10% degli investimenti. Sarebbe finanche banale richiamare la rivoluzione americana: no taxation without representation (senza rappresentanza nessuna tassazione)”.

Anche all’estero non mancano i fautori dell’inversione dell’opzione, che chiamano in causa il distacco delle nuove generazioni dalla realtà italiana. C’è evidentemente da recuperare e dovrebbe essere compito anche degli eletti in Parlamento. Ma l’Italia, anche attraverso il diritto di voto attivo e passivo, deve evitare di perdere i nuovi migranti, non le pare?

“Ho difficoltà a commentare esternazioni di personaggi in cerca di autore che parlano senza cognizione di causa, soprattutto senza conoscere i fatti. Ho la sensazione che ci troviamo dinanzi alla favola della volpe e dell’uva: la volpe non riesce raggiungerla e dice che è acerba”.

In conclusione, che ruolo potrà recitare il CGIE su tale materia?

“Dipenderà da quando decideranno di farci insediare. Al momento resta in carica il CGIE uscente per gli affari correnti. Mi auguro si possa risolvere la questione, come legge prevede, entro il mese di giugno evitando di arrivare a settembre. La legge prevede che il CGIE si esprima in materia, cosa che ha già fatto dichiarando e approvando la propria posizione di contrarietà all’inversione dell’opzione. Se il suo presidente, ovvero il Min. degli esteri, afferma il contrario, credo vadano riviste modalità, forme e modus operandi”.

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