La pandemia ha colpito anche la democrazia?

L’ANALISI:IL COVID AIUTA NAZIONALISMI, POPULISMI E AUTARCHIA ECONOMICA

di Filippo Buranelli, St. Andrews University

Gli ultimi mesi sono stati contrassegnati da una presenza maggiore di politiche illiberali in molti paesi del mondo. Restrizioni alle libertà personali, alla libertà di movimento e circolazione, all’impresa economica sono state implementate in quasi tutte le zone del mondo, Europa compresa, e spesso sono state introdotte e giustificate attraverso la narrativa della ‘salute pubblica’ e il dovere di ‘proteggere se stessi e gli altri’ a causa delle violente ondate di COVID-19 che hanno caratterizzato la vita di ognuno di noi. Trend marcatamente illiberali sono osservabili in Est Europa, Turchia, India, molte zone dell’America Latina, Stati Uniti e Medio Oriente, e non solo. Sarebbe però sbagliato, credo, considerare queste restrizioni come un aspetto della vita politica strettamente legato al virus. 

Nazionalismi, populismi, ambiziosi programmi di autarchia economica hanno trovato terreno fertile in molti stati sull’onda della pandemia, e non grazie alla pandemia

A mio parere, il COVID-19 ha funzionato come un catalizzatore, un moltiplicatore del disagio, e non come causa. Quello a cui stiamo assistendo è un trend che ha radici ben profonde, che si sono nutrite dello stato di emergenza creato dall’attuale situazione epidemiologica ma che al tempo stesso hanno trovato terreno fertile nella crisi economica, sociale, e culturale che buona parte dell’Occidente e non solo sembra star vivendo. Una prova inconfutabile dello Zetigeist della democrazia è data dal fatto che Donald Trump, il presidente più razzista, misogino, corrotto, apertamente disprezzante delle istituzioni democratiche, ammiratore dello stato di privilegio piuttosto che dello stato di diritto, adulatore di leader autoritari in tutto il mondo, anche se sconfitto ha guadagnato 7 milioni di voti in più rispetto alla sua elezione nel 2016, diventando così il presidente degli Stati Uniti col più alto numero di voti proprio dopo Joe Biden. 

Qual è dunque questo trend? Che cosa sta succedendo al nostro modo di vivere e vedere la politica? Per usare una metafora presa dal mondo dell’economia, la democrazia, che come ha sostenuto Churchill è ‘la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora’, sembrerebbe essere in recessione. Secondo questo studio, condotto e pubblicato dall’Istituto di Ricerca ‘Varieties of Democracies’ (V-Dem) dell’Università di Goteborg, per la prima volta dal 2001, la maggioranza degli stati del mondo non sono più caratterizzabili come democrazie. E c’è di più – se dieci anni fa il numero di democrazie nel mondo era di 98, ad oggi le democrazie sono 87, vale a dire una diminuzione di più del 10%. Il numero di paesi autocratici, invece, è salito a 92, pari al 54% della popolazione globale.

Sembrerebbe esserci comunque una forte correlazione tra la pandemia e la crescente insoddisfazione con la democrazia, ed è una correlazione semantica. Il sondaggio ‘Giovani e Apprezzamento della Democrazia’ condotto quest’anno dal Centro per il Futuro della Democrazia all’Università di Cambridge in Regno Unito conclude dicendo che la democrazia è ufficialmente ‘in uno stato di malessere’. Al tempo stesso, c’è una sorta di ironia nel constatare che una delle NGO che si occupa del monitoraggio della democrazia nel mondo si chiami Democracy Without Borders, facendo l’eco alla forse ben più nota Doctors Without Borders (Medici Senza Frontiere), ponendo da un lato in risalto la funzione di cura che la democrazia ha sui popoli (in una lettura della democrazia e del liberalismo in linea con la Fine della Storia di Fukuyama e la teoria della pace democratica) dall’altro il fatto che la democrazia stessa possa ‘ammalarsi’, specie se il mondo intero è afflitto da pandemia, pur con alcune zone meno di altre. Come poco sopra accennato, però, il fatto che l’epidemia di COVID-19 abbia esacerbato questo trend, attraverso politiche di chiusura e repressive, non deve trarre in inganno. Gli studi di V-Dem degli anni precedenti non hanno, infatti, titoli incoraggianti: nel 2017, il loro report era intitolato ‘Democrazia al tramonto?’; nel 2018, ‘Democrazia per tutti?’; e l’anno scorso ‘La Democrazia di fronte a sfide globali’. Cosa può significare? 

Ora, offrire una disamina rigorosa e accurata di cosa possa significare l’insoddisfazione con la democrazia è alquanto difficile, e concettualmente pericoloso. Da un punto di vista analitico, è infatti oggettivamente difficile capire se le nuove generazioni hanno meno fede nella democrazia in quanto tale, o semplicemente nella classe dirigente che sta gestendo la democrazia. Il primo è un problema strutturale, il secondo di contingenza. Tuttavia, si possono avanzare alcune idee e considerazioni.

La pandemia, un velo di Maya che nasconde paure ataviche e inconsce del diverso. A mio parere, la portata fondamentale di questo messaggio è che la pandemia di COVID-19 è un velo di Maya, che nasconde tendenze ben più profonde e consustanziali al nostro modo di vivere la politica. La recessione democratica è, in realtà, una latenza che sta avanzando da qualche anno, complice numerose fratture all’interno delle società occidentali. In particolare, le divisioni generazionali, economiche, sociali, hanno avuto negli ultimi anni un ruolo fondamentale nella recessione democratica. Il progressivo acuirsi della diseguaglianza economica tra stati ma soprattutto all’interno degli stati, un mercato del lavoro progressivamente saturato dall’automazione, dalla finanziarizzazione dell’economia, l’inflazione dei titoli di studio e un progressivo risentimento dei giovani odierni nei confronti della generazione dei baby boomers si vanno sommando a inquietudini più profonde che i leader populisti cavalcano con interesse e calcolo politico. Vi sono infatti, nelle motivazioni date negli studi e sondaggi citati sopra, paure ataviche e inconsce del diverso, dell’ignoto, del buio che questa crisi più che decennale, sociale, economica, valetudinaria ma anche epistemologica (non sappiamo più come conoscere, distinguere il vero dal falso, l’oggettivo dall’opinione, la menzogna dalla ‘verità alternativa’) va acuendosi. Il non-sapere a cosa ci porterà questa crisi ci spinge sempre più a dinamiche conflittuali basate su insiders e outsiders, noi contro loro, amico-nemico che minano nel profondo il demos democratico e lo parcellizzano in un tribalismo identitario.

I giovani sempre più scettici della democrazia. L’aspetto più preoccupante che marca questo trend è che, come è stato accennato, i giovani sembrano essere quelli più scettici e insoddisfatti della democrazia. Rimanendo sempre sull’aspetto generazionale, sul quale ha converso anche l’articolo di Aliya Tskhay qualche settimana fa su queste pagine, le ricerche effettuate sulla diminuzione di fede nella democrazia ha evidenziato come il segmento della popolazione in una grande maggioranza del mondo (Europa Occidentale, America, intesa come Stati Uniti e America Latina, e Africa sub-Sahariana) siano proprio quei millennials (1981-1996) che si vedono privati di un futuro di stabilità e prosperità che mai arriverà (pensioni magre nella migliore delle ipotesi, sacrifici, continua precarizzazione). L’ultimo studio delle Nazioni Unite ha rilevato che i paesi in cui la diseguaglianza economica è cresciuta contengono il 71% della popolazione mondiale, e che i proventi dell’1% più ricco del mondo sono cresciuti in 46 dei 57 paesi analizzati nell’arco di 20 anni.

Nelle democrazie occidentali l’attrazione esercitata da leader e piattaforme populiste è marcatamente ideologica, e meno tollerante dell’idea di confronto basato sul rispetto e parità d’opinione. 

L’attrazione per il leader non ha colore politico. Come infatti dimostrato nello studio sui Giovani e Democrazia, in media i giovani tra i 18 e i 34 anni mostrano un incremento di soddisfazione del 16% nel primo mandato di un leader populista, sia esso di destra o di sinistra, creando così un corto-circuito per il quale il populismo e le tendenze autoritarie di esso creano una crisi di legittimità proprio quando sono al potere. In altre parole, bisogna avvalersi delle procedure democratiche per poterle delegittimare. 

I risultati, a livello geografico, sono forse meno peggio del previsto. Se a livello mondiale i millennials soddisfatti della democrazia sono passati dal 50% al 45%, con dunque un calo del 5%, nei paesi anglosassoni spesso considerati come ‘culle’ della democrazia il declino di tale soddisfazione ha toccato il 15%. In Italia, la situazione non è di certo migliore. Secondo un recente sondaggio IPSOS, nel nostro paese vi è un costante calo di fiducia verso le istituzioni democratiche. All’affermazione ‘La democrazia ormai funziona male, è ora il momento di cercare qualcosa di diverso/migliore di governare l’Italia’ il 56,2% ha risposto in modo positivo. A livello Europeo, mentre gli stati del Nord e la Svizzera confermano la loro generale soddisfazione con la democrazia (secondo il Democracy Index del The Economist, Norvegia, Islanda e Svezia continuano ad essere saldamente i paesi con la democrazia più funzionale al mondo), siamo di fronte ad un paradosso per il quale per la prima volta dalla sua creazione l’UE annovera tra i suoi membri uno stato marcatamente (ed ufficialmente, se guardiamo ai vari indici e tabelle come Freedom House) autoritario – l’Ungheria. A tal proposito, Timothy Garton-Ash, intellettuale ed accademico britannico, ha di recente sostenuto che l’UE è di fronte ad un dilemma piuttosto inaspettato, ovvero se sia meglio continuare senza la Gran Bretagna, democratica, o con l’Ungheria, progressivamente e fieramente autoritaria. 

C’è anche un aspetto cronologico, temporale che non va per niente sottovalutato: ha a che fare con le lotte ideologiche. I giovani oggigiorno, me compreso, non ricordano le lotte politiche, ideologiche (che spesso sfociavano in lotte fisiche e militari, con morti e feriti) che la precedente generazione e ancor più quella prima dovette affrontare per affermare i principii di legittimità democratica all’interno di molti stati. Quello che vedono, invece, è corruzione, incompetenza, un rampante patrimonialismo che pervade numerose arterie di una sempre più assuefatta società – assuefatta dalla diseguaglianza, dalla precarietà, dall’inabilità delle istituzioni in molti stati europei di far fronte alle grandi sfide di questo secolo, quali una gestione umana e caritatevole dell’immigrazione e la salvaguardia di ambiente ed ecosistema. Non è infatti un caso che negli ultimi 25 anni, i cosiddetti partiti democratici nel mondo e ancor più in Europa, seppur in diverse misure, hanno spesso prioritizzato l’ultra-liberalizzazione del commercio e una globalizzazione anomica, slegata da un contesto di protezione economica e sociale piuttosto che privilegiare la creazione di posti di lavoro e una progressiva eguaglianza economica tra le diverse classi sociali (le ultime stime della Banca Mondiale illustrano come il tasso di disoccupazione mondiale sia al 5.42% comparato al 4.758% del 1991. Da notare che dal 1991, il tasso di disoccupazione è salito e sceso più volte, senza però mai scendere sotto o a livello del 1991). Quello che fa ancora più impressione è il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni): prendendo come riferimento ancora il periodo 1991-2020, è possibile vedere come si sia alzato dal 10.8% al 15.502%, il dato più alto di sempre. 

Democrazia e libertà. Questa crisi della democrazia, che è spesso associata al termine sovranismo, si accompagna anche ad un lento cambiamento nel concetto di libertà, spesso appunto associato al contesto democratico più che al contesto autoritario. E infatti, si potrebbe interpretare il sovranismo come la proiezione, a livello internazionale, dell’individualismo a livello personale. Come ha notato di recente Adam Shatz sulle pagine della London Review of Books, la libertà che sta venendo paradossalmente ad erodere il patto sociale, il fondamento di una qualsiasi funzionante democrazia, è sempre più intesa come libertà del fregarsene, del non assumersi responsabilità, dell’esimersi dai diritti e doveri del consesso sociale – fondamentalmente, una libertà dalla società. La gestione degli appalti e della distribuzione di materiale medico per fronteggiare la pandemia in Regno Unito, per esempio, ha portato alla luce una fitta rete di amicizie, favori, scambi, e corruzione che gettano più di un’ombra sulla trasparenza e l’efficienza del sistema democratico britannico inteso in senso lato, e che sicuramente complica la rappresentazione manichea, e forse un po’ idealista, del dilemma Regno Unito-Ungheria offerto da Garton-Ash.

Democrazia e autoritarismo. Questo trend porta anche ad una necessità di riconsiderare la democrazia l’autoritarismo come due pratiche assolute. L’una può avere aspetti dell’altra, e viceversa. Il focus sulle pratiche è di vitale importanza per capire la portata del fenomeno cui stiamo assistendo, e quale sia la tenuta delle istituzioni democratiche deputate ad un rinforzamento delle prime ed un contenimento delle seconde. Inoltre, e consequenzialmente, quello che forse è più importante notare è che questa attitudine dei giovani verso la democrazia ci ricorda come la democrazia non è solo elezioni. Se così fosse, anche uno stato come il Turkmenistan, con un presidente che sistematicamente vince con più del 90% dei voti, o la Bielorussia, sarebbero considerati democrazie. La democrazia è trasparenza, responsabilità nei confronti delle persone che hanno votato a favore di qualcuno (una delle parole più belle in inglese è ‘accountability’, che non è traducibile in italiano se non attraverso la circonlocuzione usata sopra), è controllo della violenza strutturale e sociale, competenza e cura ‘della cosa pubblica’ nel gestire crisi, è garanzia e tutela dei diritti fondamentali della persona, è separazione dei poteri e molto altro. 

Democrazia e solidità. Da ultimo, è anche importante ricordare come la parola ‘democrazia’ contenga sì il concetto di potere del popolo, ma anche quello di ‘solidità’. Kratos, in greco antico, significa potere, ma anche solidità, una solidità che è in crisi, che è in attesa di risoluzione e giudizio. Un giudizio che sembra essersi perso, tanto nel popolo quanto nei politici che intercettano questo sentimento di egoismo, menefreghismo, isolamento malvestito da indipendenza come appunto ha rimarcato Shatz. La crisi della democrazia è dunque una crisi nel senso di governo del popolo, che non è più visto come funzionale alle sfide della società moderna, ma anche una crisi nel senso etimologico di ‘giudizio’ – la crisi epistemologica accennata sopra. 

E dunque, è necessario ripartire proprio dal giudizio, dalla conoscenza, dall’istruzione per ridare solidità al corpo democratico. Pur non avendo né lo spazio, né l’ambizione, né la capacità di offrire soluzioni per riconsolidare la democrazia a livello globale nello spazio di questo articolo, mi sento di proporre come primo passo il riappropriarsi della nostra abilità e dovere di informarci, di partecipare, di decidere come parte di un ampio consesso sociale (il demos della democrazia) e non come isole felici, sostenendo e demandando che venga fatto di più per l’occupazione, la mobilità, e soprattutto il riconoscimento dei giovani e del loro futuro. La scuola, i programmi di formazione professionale, le strategie di assunzione e assimilazione dei giovani all’interno del mondo del lavoro e all’interno di una struttura che possa garantire loro una vita degna e dignitosa devono e dovranno essere le priorità di tutte quelle forze politiche che hanno a cuore il futuro della democrazia. Altrimenti, la fiducia in essa continuerà a calare, e con essa la volontà di proteggerla. Tanto c’è l’uomo forte a darci quello di cui abbiamo bisogno. O, almeno, così dice.

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