“L’amore vince tutto, dicono. Ma non così la guerra”. Intervista esclusiva allo scrittore Drago Jančar

Tra i più noti scrittori sloveni contemporanei, Drago Jančar- che è pure autore, condannando da sempre ogni forma di totalitarismo, di vari saggi sulle questioni politiche e culturali slovene ed europee-, non delude le aspettative di chi già lo conosceva, apprezzava e amava, con la sua più recente opera “E l’amore anche ha bisogno di riposo” (La Nave di Teseo, 400 p, collana Oceani, 2022).

Una bellissima storia che si svolge in Slovenia durante la Seconda guerra mondiale e parla di amore, come suggerisce il titolo, ma anche di guerra e di altre miserie umane.

Nel 2003 Jančar ha vinto il Premio Herder, nel 2016 il Premio Internazionale Ignazio Silone e nel 2020 il Premio di Stato austriaco per la letteratura europea e le sue opere sono tradotte in 18 lingue. Quelle disponibili in italiano, oltre a “E l’amore anche ha bisogno di riposo”, sono: L’allievo di Joyce. Racconti (coedizione Ibiskos Editrice Risolo e ZTT-Est, Empoli-Trieste 2006, collana Est-Libris); Il ronzio (Forum, Udine 2007); Aurora Boreale (Bompiani, Milano 2008); Stanotte l’ho vista (Comunicarte Edizioni, Trieste 2015).

Ecco cosa ci ha raccontato sulla sua ultima creatura letteraria.

Il suo ultimo libro uscito in Italia edito da La Nave di Teseo ha colpito molti lettori e ne ha aggiunti anzi di nuovi oltre a quelli che la conoscevano già. La sorpresa comincia dal titolo:E l’amore anche ha bisogno di riposo”. Perché lo ha pensato così? Anche grammaticalmente un po’ atipico, con quel L’amore anche, invece che il classico Anche l’amore

“Si tratta di un verso della poesia di Lord Byron So we’ll go no more a roving. La sua amara malinconia per la perdita dell’amore mi accompagna fin dagli anni del liceo e quando, molti anni dopo, stavo lavorando su un romanzo sugli amanti che si scrivevano lettere con i versi dei poeti, il titolo è venuto a galla automaticamente dalle profondità del mio subconscio. Mi rendevo conto, che la scelta di usare la parola “amore” nel titolo era azzardata, in quanto potrebbe far pensare ad una letteratura più leggera. Il mio romanzo parla invece di relazioni pericolose in tempi pericolosi. E anche nella vita di tutti i giorni, faccio proprio fatica a pronunciare questa parola e adesso “l’amore” è arrivato persino sulla copertina di un libro. Ma non andava altrimenti, nel romanzo questa malinconia è tale come nella poesia di Byron, solo che è molto più fatale e crudele. Naturalmente si svolge in tempo di guerra. L’amore vince tutto, dicono. Ma non così la guerra, aggiungo io”.

La cornice storica del romanzo è molto interessante e fa luce su vicende poco conosciute, almeno da noi in Italia e in Svizzera. Il tema del collaborazionismo è tornato purtroppo alla ribalta in modo violento con la guerra della Russia all’Ucraina. Pensa che esista uno specifico tipo umano del collaborazionista?

“No. Esiste un tipo di opportunista che si adatterà come microrganismo a qualsiasi sistema vivente e sociale. Ma ciò che più spesso spinse le persone al collaborazionismo è la convinzione – sbagliata – di dover lottare per i propri valori. Certo, c’erano tra di loro molti che calcolavano dove sarebbero stati meglio, alcuni si unirono agli occupatori semplicemente per danaro o altri benefici, ma principalmente si trattava di un profondo conflitto ideologico. In Slovenia, la seconda guerra mondiale fu un periodo di terribile confusione: occupazione, resistenza, guerra civile. Sappiamo chi aveva ragione e chi ha vinto, ma io sono uno scrittore e cerco di capire chiunque sia stato coinvolto in una “faida fraterna”. Il conflitto fraterno è una delle peggiori anomalie umane e sociali e porta a conseguenze molto complesse e terribili. Lo conosciamo da tempo immemorabile: in Euripide, nell’Antico Testamento, lo abbiamo vissuto in Slovenia durante la Seconda guerra mondiale, lo conosce anche l’Italia. E oggi l’Ucraina”.

La dinamica psicologica dei protagonisti torna ogni volta alla ribalta in modo prepotente. Ha colpito molti il tema della giovane donna che, consapevole della propria forza di attrazione, decide di concedersi al nemico pur di salvare il suo amato. È possibile “tradire per amore”?

“Sì, è così che inizia il romanzo. Una ragazza cerca di salvare il suo ragazzo, un partigiano, da una prigione della Gestapo. Possiamo parlare di “tradimento”? Forse trattasi piuttosto di un grande sacrificio. La ragazza ha successo e il suo amante ritorna dai partigiani. Però lì è visto con sospetto perché è uscito dalle grinfie della Gestapo e lei, inconsapevolmente, lo salva ancora una volta quando lo stesso ufficiale tedesco che ha liberato il ragazzo, la manda in un campo di concentramento nel bordello militare. Un intreccio terribile con conseguenze altrettanto terribili, scaturite da un sacrificio altamente etico. Sì, è possibile “tradire” per amore. Ma le conseguenze sono terribili, per entrambi, perché anche il ragazzo salvato, un vincitore del dopoguerra, “la cui fronte è cinta con corone di gloria”, come gli viene acclamato con versi tratti dal Riccardo III (di William Shakespeare, ndr) nella sua vita non avrà più pace”.

Lei era molto amico di Boris Pahor (scrittore e insegnante sloveno con cittadinanza italiana, scomparso a maggio 2022) e insieme avete molto contribuito a far conoscere la storia e la letteratura della Slovenia. Come vi sentite fra Austria e Italia?

Tra le due nazioni vicine, in secoli di storia comune, si è sviluppato un qualcosa, che nella lingua tedesca è chiamato con il termine molto azzeccato di hass liebe verhältniss, cioè un rapporto di amore e odio. Amore dovuto alla connessione umana e secoli di intrecci culturali. Odio dovuto ai nazionalismi, alle assimilazioni e alle guerre. Appena nato, il fascismo ha bandito la lingua slovena in una vasta area geografica e a Trieste ha bruciato il Narodni dom (Casa del Popolo, NdT).
In Austria, i nazisti deportarono in massa gli sloveni e poi, insieme all’esercito tedesco, marciarono in Slovenia e iniziarono a compiere atrocità inimmaginabili. Ma le cosiddette “foibe” del dopoguerra seminarono il terrore degli sloveni su molti italiani, anche quelli innocenti, e l’espulsione di quanti parlavano tedesco dalla Slovenia. Ma queste terribili ferite della storia stanno lentamente guarendo. Nell’Europa comune sta venendo alla ribalta ciò che ci ha unito per molti secoli prima che scoppiassero le folli ideologie del ventesimo secolo. Non solo la cooperazione economica e politica, ma soprattutto la cultura, in primo piano la letteratura, che ci aiuta a capirci a livello umano. I romanzi di Pahor e i miei hanno certamente contribuito in questo senso”.

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