Lo scandalo dell’imprevedibile

Silvano Petrosino, milanese, classe 1955, Professore Ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Antropologia Filosofica, Antropologia Religiosa e Media, Filosofia della comunicazione e Teorie della Comunicazione, durante la pandemia, pubblica, per i tipi di Interlinea, l’opera “Lo scandalo dell’imprevedibile. Pensare l’epidemia”.

Un libro di settantuno pagine nel quale Petrosino ci spiega perché il “futuro” è diverso dall’“avvenire”, il “mondo” dal “reale”, la “scienza” dagli “scienziati”, l’”ottimismo” dalla “speranza”; scrive inoltre della modalità del “morire”, dell’autentica “Libertà” e altro ancora.

Silvano Petrosino definisce l’epidemia come un evento imprevedibile, una vera e propria “irruzione dell’imprevedibile”. Un virus che ha avuto la sfrontatezza di disturbare nazioni estremamente evolute: chi poteva prevedere, scrive Petrosino, che proprio in questi luoghi privilegiati, in queste zone fortunate e sazie, dove quasi tutti possono disporre di quasi tutto, potesse svilupparsi e diffondersi così violentemente un’epidemia? 

La nostra società, definita da Petrosino il “primo mondo”, è una società altamente tecnologica che non a caso trova nella raccolta e nell’elaborazione dei dati una delle sue espressioni più sofisticate. Prevedere eventi che ci attendono nel futuro, al fine di progettare, è una delle attività principali della nostra società. Il dopo che si prevede è strettamente connesso al prima, a partire dal quale, per l’appunto, lo si pre-vede. Per chiarire meglio il senso dell’imprevedibile, Petrosino differenzia, con riferimento all’idea di tempo, il futuro dall’avvenire. Per il filosofo il futuro è strettamente legato al presente, è sempre il futuro di un determinato presente. Quando pensiamo al futuro, quando per esempio progettiamo una determinata iniziativa futura, afferma Petrosino, non possiamo far altro che partire dal presente in cui viviamo, vale a dire dalle idee, sogni, speranze, ipotesi, immaginazioni, che abitano il nostro presente; nel progettare, gettiamo nel futuro qualcosa che proviene inevitabilmente dal presente. All’opposto, l’avvenire è precisamente ciò che non può essere previsto o progettato; esso è il campo dell’evento, dell’avvenimento, di ciò che viene e accade – e ciò che accade e viene lo fa sempre senza avvisare, senza pre-avvisare. Sarebbe una follia, scrive Petrosino, progettare di innamorarsi: nessuno può prevedere con serietà se e quando s’innamorerà.

Per meglio chiarire il concetto di imprevedibilità, Petrosino introduce nella propria riflessione il tema del Limite, ci invita a “rispettare il limite”: è necessario riconoscere che la nostra cultura tecno-consumistica, forte, ottimistica, sempre sicura di sé, indifferente nei confronti di ogni esitazione e di ogni dubbio, preoccupata – sembrerebbe – solo della ricerca del “benessere”, celebra con insistenza il superamento dei limiti senza tuttavia rispettare il limite – non bisogna fermarsi mai, bisogna sempre andare oltre e puntare più in alto, bisogna a ogni costo incrementare i consumi e le conoscenze, mirare all’eccellenza, perché “arrivare secondi non serve a nulla”, perché arrivare secondi, terzi o quarti significa essere dei falliti. La nostra società, afferma Petrosino, non si lascia interrogare dal limite, non gli presta una vera attenzione e non lo degna di alcuna seria riflessione. 

L’imprevedibile non riguarda solo l’avvenire, ma coinvolge anche il presente dell’uomo, il quale, secondo Petrosino, non solo vive, ma prende anche coscienza del vivere.

L’agire di un uomo che riconosce il limite, che non si fa abbagliare dall’eccellenza e non si fa distrarre dal delirio di “essere migliore”, è un agire che si dimostra più fecondo di quell’operare che, senza guardare in faccia a niente e a nessuno, va avanti freneticamente confondendo il compimento con il successo: azione frenetica in cui il costruire, alla fine, si rivela essere un distruggere. L’uomo non può evitare di progettare, ma è nell’ora del presente ch’egli è chiamato a immaginare e progettare il futuro, considerando l’imprevedibile che lo attende nell’avvenire.

Di fronte a un’epidemia non si può fare altro che lottare con gli strumenti della scienza, e Petrosino si domanda come mai questa scienza non abbia saputo prevedere questa epidemia: bisognerebbe distinguere la scienza dagli scienziati, osserva. Gli scienziati, smentendo l’immagine di una scienza rassicurante nel vissuto di tante persone, si sono comportati come gli altri uomini di cultura, affermando che non tutto si può prevedere, che c’è un avvenire al di là del futuro, che c’è sempre qualcosa che non funziona, un resto che non si riesce in alcun modo a contabilizzare. Petrosino ci invita a interrogarci sui rapporti che intercorrono tra la scienza e l’immagine della scienza. 

Altro tema oggetto della riflessione di Petrosino è il tema della libertà – emerso con forza durante l’epidemia, poiché siamo stati costretti a restare chiusi in casa e abbiamo dovuto accettare una drastica limitazione della nostra libertà, appunto.

Tutte le persone minimamente consapevoli affermano che l’autentica libertà non consiste nel fare ciò che si vuole. Eppure, nel nostro vissuto più profondo di cittadini e di abitanti del “primo mondo”, tutti in qualche modo aderiamo, scrive il filosofo, magari inconsapevolmente, a un’idea di libertà come piena e assoluta – o quasi assoluta – autonomia.

Petrosino cita il filosofo Luc Ferry che in un articolo scrive: «La natura ha perso la sua opacità e il suo mistero, essendo ormai pensata dall’uomo come qualcosa che, almeno in linea di principio, è del tutto conforme alle leggi del suo spirito, della sua ragione. […] L’oscurità del reale non è più un dato in sé, un mistero irriducibile dell’Essere, un carattere intrinseco della natura, ma solo il rovescio di una ignoranza che ci è propria e i cui limiti possono e devono essere infinitamente spostati in nome del progresso. […] La natura perde il suo carattere di cosmo, di modello ricco di bellezza, senso e insegnamento per l’uomo. Essa non è altro che un ampio serbatoio di oggetti senza alcun particolare valore in se stessi, uno stock di cose che non hanno altro prezzo al di là di quello fornito dagli uomini stessi. L’uomo dunque, non solo può spiegare tutte queste cose con la propria intelligenza, ma può anche utilizzarle a proprio piacimento, secondo la propria volontà, per realizzare tutti quegli obiettivi che gli sembrano utili o desiderabili. Il mondo intero gli appartiene e diviene totalmente un mezzo per i fini di una specie umana dalla capacità di consumare virtualmente illimitata. In breve, se a livello teorico l’universo è calcolabile e prevedibile, a livello pratico esso diviene manipolabile ed utilizzabile a piacimento».

Che cosa ha provocato in noi la situazione che ci ha afflitto per settimane? La risposta di Petrosino è che all’improvviso siamo stati gettati di fronte a una “dura realtà”, al “reale” direbbe Lacan. All’improvviso siamo stati raggiunti, all’interno delle nostre case e dei nostri stessi affetti, dall’indisponibile, da un evento che si è sottratto al nostro potere di decidere, al nostro progetto, al nostro consumo, perfino alla nostra immaginazione. 

Per Petrosino, la libertà umana non è mai solo una questione di spazio (il dover restare in casa), ma anche di tempo.

La nostra temporalità viene divorata dal demone dell’urgenza – una vera e propria menzogna, secondo Petrosino, un infantile autoinganno: nulla è indispensabile, quasi nulla è urgente, e, soprattutto, nessuno può pretendere di occupare sempre il centro della scena. L’epidemia che ci ha investito ci ha anche costretto ad avere pazienza, ad attendere rispettando gli altri. L’invito è quello di liberarci dal tempo infantile del “subito” e dell’“adesso”, e imparare che la temporalità umana si dispiega secondo una “strana modalità” che non è mai stata quella dell’“ora”, ma sempre quella, intrecciata e stratificata, della “storia” – e una storia è costituita anche da attese, speranze, memorie, dubbi, esitazioni, passi indietro, slanci in avanti, atti di pazienza, momenti vuoti. Dovremmo essere più seri nel vivere il tempo, che non è mai solo il “nostro tempo”, vale a dire il tempo delle nostre “urgenze private”.

Altro tema a cui il filosofo dedica un’intensa riflessione è il tema della morte, osservando come in questa epidemia ciò che ci ha atterrito non è stato tanto l’evento della “morte”, quanto piuttosto una certa modalità del “morire”: all’improvviso i malati sono stati trasportati in ospedale da soli, isolati e quasi sequestrati in fredde strutture tecnologiche, e dove molti di loro sono morti senza nessun accompagnamento, senza alcuno sguardo e senza una sola parola da parte dei propri cari, addirittura senza neppure un funerale. Un’esperienza traumatica del distacco e dell’abbandono.

Riflettendo su cosa fare, Petrosino si affida in parte alle parole di Camus per quanto riguarda il presente: bisogna restare, accettare lo scandalo, cominciare a camminare nelle tenebre e tentare di fare il bene; fa riferimento a quelle migliaia di persone che con spirito di servizio hanno espresso una generosità encomiabile. Suggerisce che bisogna anche avere il cuore e la forza di mettere in campo un altro tipo di aiuto, che riguarda l’esperienza del limite. Bisogna aiutare, aiutarsi, farsi aiutare, fin da ora, affinché l’esperienza del limite, che si è manifestata in questa tragica esperienza, non diffonda la negatività, non fecondi quella disperazione che finisce per trasformarsi in una sorta di giustificazione della rabbia e del risentimento nei confronti degli altri, e più in generale della vita stessa.

Nel rispondere su cosa fare dopo, su cosa ci attenda dopo, Petrosino non ha dubbio ad affermare che ci attendono anni difficili, ma riconosce di non avere competenze in merito. Ci aiuta però a vedere il nostro “primo mondo”, evidenziando che si nutre di una volontà di potenza all’interno della quale si confondono costantemente il compimento con il successo, il lavoro con la professione, la determinazione con l’ostinazione, e parallelamente la mitezza con la debolezza, la pazienza con l’esitazione. L’ideologia di eccellenza, tipica della cultura del “primo mondo”, secondo Petrosino, genera schiere di paranoici che, giudicando la propria vita un fallimento, non trovano di meglio che individuare, nelle circostanze sfavorevoli della vita e nella malignità degli altri, la vera e unica causa del proprio infelice destino. L’epidemia che ci ha colpito potrebbe aiutarci a uscire da questo delirio, o perlomeno a riconoscere il carattere patologico di questo modo di vivere e pensare così diffuso nel “primo mondo”. Per Petrosino non c’è alcuna garanzia, alcuna certezza che un fatto accadutoci si trasformi di per sé in un evento significativo e fecondo per la nostra esperienza: non basta infatti una sensazione, fosse anche una forte sensazione, come ad esempio quella che proviene da un’epidemia con tutta la sua sofferenza e i suoi lutti, per generare un’esperienza, la quale esige anche il desiderio, l’attenzione, la riflessione, la volontà e il giudizio. Qualcosa può accadere nella nostra vita senza tuttavia lasciare alcuna traccia nella nostra esperienza e quindi ciò che è accaduto non ha cambiato nulla, non ci ha cambiato in nulla.

Petrosino scorge un altro rischio che ci invita a non sottovalutare: «Mi pare, infatti, che a fianco all’idolo dell’eccellenza si stia costruendo l’idolo della “sicurezza”. Non vorrei che in nome della nostra salute fisica alla fine ci si consegni a una “metafisica della sicurezza” che non potrà far altro, ancora una volta, che “sorvegliare e punire” (Foucault). Speriamo almeno che il desiderio della riflessione e la spinta al cambiamento non vengano meno con lo spegnersi stesso dell’epidemia. Speriamolo, anche perché non possiamo fare altro».

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami