Il governo decide: la città si deve fermare…

L’esclusione di Bologna, capoluogo emiliano-romagnolo, dal decreto ministeriale, che estende a tutta la Lombardia e ad altre 14 province la cosiddetta “zona rossa”, per alcuni è suonato come salvacondotto. Così come la bozza di decreto circolata, in modo furbesco o concertato (non è dato saperlo con esattezza), qualche ora prima dell’ufficialità, su tutti i media nazionali e internazionali, scatenando un panico tutto sommato controllato.

E mentre Fanpage.it cerca di ricostruire a ritroso la catena comunicativa, ravvisando nel canale ufficio stampa Regione Lombardia-Cnn il primo passaggio, nella giornata di domenica, la distanza tra teoria e pratica non potrebbe essere più grande.

Se a Milano fa notizia la “fuga” verso il sud e l’assalto ai treni nella notte di sabato, nella vicina Piacenza, ritrovatasi improvvisamente in zona rossa, in stazione non c’è anima viva. Ad eccezione di qualche pendolare straniero che fa la rotta inversa dal polo logistico piacentino – che raccoglie innumerevoli migranti come facchini – per tornare a casa, in direzione Milano o Bologna.

Nessun ritardo tra i treni e nessun controllo.

La sensazione – ancora più netta – che questa domenica dal clima primaverile sia stata il giorno delle prove generali, utili a verificare la portata dell’appello al senso civico in attesa di misure restrittive più chiare.

Da domani, le cose potrebbero cambiare drasticamente, dice un addetto di Trenitalia che siede in biglietteria, ma preferisce restare anonimo. Con partenza contingentate verso Milano e Bologna, ma anche controlli all’arrivo. Basterà? Certamente no se – come già da oggi possiamo verificare – le aziende iniziano a diramare messaggi via whatsapp ai propri dipendenti residenti in zona rossa, dicendo loro che domani dovrebbero bastare carta d’identità e badge per passare indenni i controlli.

Il cosiddetto smart-working, qui, sembra un lusso che possono permettersi solo le multinazionali, mentre piccole e medie imprese, così come gli ipermercati e i colossi della logistica che privilegiano manodopera a basso costo, servendosi di cooperative di servizio, preferiscono la vecchia strada. Quella della presenza sul luogo di lavoro e del controllo visivo, con buona pace dell’emergenza sanitaria.

Sarebbe frettoloso, in questa fase, tuttavia, cercare facili colpevoli nel mondo imprenditoriale. La realtà è che dopo settimane in cui i comuni di Milano e Piacenza hanno fatto a gara per diffondere video tranquillizzanti dietro l’hashtag “La città non si ferma”, ieri il governo ha invece deciso che l’Italia si deve fermare.

Così come quel 30% di Pil prodotto dalle province interessate dall’ordinanza. Emergenza sanitaria da una parte, emergenza economica dall’altra. Un trade off di difficile gestione acuito – paradossalmente – dai dati gonfiati sulle positività da Covid-19.

L’esame al tampone, infatti, per accertare la positività nelle province in questione è stato fortemente limitato, tanto che tra i virologi c’è chi suggerisce che i casi reali possano essere già 10 volte superiori. Ma se così fosse, anche i dati sulla mortalità (attorno al 3%) e i decorsi gravi (tra il 10 e il 15% dei casi) andrebbero divisi per dieci, ridimensionando i termini di un’emergenza che continua a preoccupare più per la ricettività delle strutture ospedaliere che per altro.

Salute pubblica da un lato, tenuta economica dall’altra, in un Paese che rischia di sprofondare di nuovo nel baratro della recessione tecnica. Quale sia meglio tutelare per prima in questa fase, come direbbe Socrate, “solo Iddio lo sa”.

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