Cancellare il passato, migliora il futuro?

Secondo la Cancel culture, Omero è razzista e la torta di mele è simbolo di schiavitù

Di Giorgio Marini

A inizio anno, in Massachusetts, una professoressa si sarebbe dichiarata orgogliosa di aver tolto dal programma di studio dei suoi alunni un classico dell’umanità intera come l’Odissea di Omero, in quanto “razzista” e “non inclusiva”. Uno dei tanti esempi di Cancel culture, cultura della cancellazione. Eletta parola dell’anno nel 2019 dal Macquarie Dictionary, se ne sente sempre più parlare, in particolare nei dibattiti sulla libertà d’espressione. È l’ultima tendenza estremizzante del politically correct, di fronte a opere letterarie e artistiche, personaggi e momenti storici di altre epoche e culture criticati in base al metro di giudizio della sensibilità contemporanea.

Gli esempi di Cancel culture sono numerosi. Nella primavera 2021, per esempio, la Norton, casa editrice di “Philip Roth: The Biography”, scritto da Blake Bailey, davanti alle accuse di violenza sessuale mosse allo scrittore, scomparso nel 2018, e tornate alla ribalta, ha preso delle decisioni drastiche: in un primo momento, è stato stabilito che venisse fermata la ristampa del libro già in commercio, successivamente è stato rescisso il contratto con l’autore della biografia.

Via col vento, da sinistra: Hattie McDaniel,
Olivia de Havilland e Vivien Leigh

La scorsa estate Via col vento, pellicola cult del 1939 – otto Premi Oscar, incassi da record – è stata tolta per quindici giorni dal catalogo della piattaforma di contenuti in streaming HBO Max e reinserita successivamente in una nuova versione. Il film, cioè, è stato preceduto da un’introduzione di Jacqueline Stewart, conduttrice di Silent Sunday Nights e professoressa del dipartimento di cinema e studi legati ai Media presso l’Università di Chicago. Nel suo intervento la Stewart spiega le tematiche presenti nell’opera nella quale è proposta una rappresentazione del Sud degli Stati Uniti di metà Ottocento romanticizzata e controversa rispetto alla schiavitù dei neri. Anche la piattaforma Netflix è intervenuta modificando la descrizione che accompagna il classico di Hollywood e invitando gli spettatori a informarsi sulla realtà dei neri in America con approfondimenti sul tema connesso al recente movimento “Black Lives Matter” contro le violenze e le discriminazioni subite dalla comunità afroamericana statunitense.

Ma non è tutto. Anche il mondo dell’infanzia è tutt’altro che esente dall’azione della cancel culture. Gioielli dell’animazione come Peter Pan, Gli Aristogatti e Dumbo sono stati accusati di proporre stereotipi sbagliati rispetto a popolazioni e culture e di contenere messaggi dannosi, al punto che la Disney li ha vietati ai minori di 7 anni su Disney+. Non è stata risparmiata nemmeno l’“intoccabile” regina Elisabetta II: gli studenti del prestigioso Magdalen College di Oxford hanno votato per rimuovere il ritratto fotografico della longeva monarca da una loro sala comune, risalente agli anni Cinquanta, dal momento che l’immagine è stata ritenuta simbolo del “dominio coloniale” del Regno Unito, all’epoca a capo di un impero. Il ministro dell’istruzione britannico, Gavin Williamson, ha definito “assurda” l’iniziativa, ma tant’è il comitato degli studenti che ha avanzato la proposta – accolta dalla dirigenza del college – è stato difeso e appoggiato dalla preside dell’istituto, Dinah Rose, per rispettare “la libertà di parola, il dibattito politico e il diritto del comitato stesso all’autonomia”, secondo quanto ha riportato il “Guardian”.

E proprio da questo giornale inglese è stata lanciata una delle ultime crociate della cultura della cancellazione. Nel mirino, questa volta, è finita la tradizionale apple pie, la torta di mele, uno dei simboli a stelle e strisce per eccellenza al pari dello zio Sam e dei cowboy, come riconosce anche il giornale. In un articolo firmato da Raj Patel, l’autore e accademico ha puntato il dito contro il tipico dolce americano in quanto, a suo dire, “espressione del trionfo del colonialismo e della schiavitù”, con origini “intrise di sangue”. Il riferimento è alle mele che furono coltivate per la prima volta quattromila anni fa nell’Asia Centrale e da lì, attraverso la Via della Seta, giunsero nel bacino del Mediterraneo. Furono poi i coloni spagnoli nel 1500 a farle conoscere ai nativi amerindi nella zona dell’attuale Colombia, dove venne compiuto un genocidio delle popolazioni indigene. Per non parlare del fatto, sottolinea sempre Patel, che la ricetta è una rivisitazione della torta di zucca squisitamente inglese. Di made in Usa, dunque, ci sarebbe ben poco. Considerazioni che possono far riflettere, certo, ma sono sufficienti a “cancellare” una specialità culinaria del genere, con tutta la sua suggestione culturale e sociale che si porta appresso oltre al gusto e al profumo?

Il problema, infatti, è questo, e risiede nelle conseguenze della cancel culture, che porta a un boicottaggio di determinate espressioni e prodotti – dalle opere culturali al cibo – da parte dei consumatori, e a un atteggiamento da “freno a mano tirato” delle aziende che non vogliono più assumersi certi rischi, pena la gogna mediatica, tanto che arrivano a dare un colpo di spugna rispetto a quanto già realizzato e prontamente ritirato dal mercato. Intanto il danno d’immagine, almeno per quanto riguarda il tribunale dei social, è già avvenuto e ha portato a una sentenza categorica. Sembra, infatti, si stia andando ben oltre rispetto alla visione propositiva di Clyde McGrady illustrata sul “Washington Post”, secondo cui la cancel culture sarebbe più simile all’atto di cambiare canale che chiedere all’emittente di cancellare una trasmissione. Un’azione, quella, che avrebbe un valore sul presente, senza alcun intento di modificare il passato, ma di migliorare il futuro. Invece in molti casi si inneggia all’oscurare vero e proprio – di un libro, un film, un autore, una tradizione – per rimanere nella metafora televisiva. In tanti altri si provvede già direttamente in tal senso.

Di cancel culture si parla negli Stati Uniti da molti anni. Uno dei primi riferimenti era già presente nel film New Jack City del 1991, in cui il gangster nero Nico Brown lascia la sua fidanzata parlando, appunto, di “cancellare” quella persona. Pare che per l’espressione lo sceneggiatore Barry Michael Cooper si sia ispirato al testo di Your Love Is Cancelled, brano degli Chic del 1981, che ha introdotto per la prima volta l’idea di “cancellare qualcuno per un comportamento inaccettabile”. Da allora, il concetto è stato ripreso da rapper come 50 Cent e Lil Wayne. Nel dicembre 2014, il produttore discografico Cisco Rosado ha detto “You’re cancelled” alla sua partner Diamond Strawberry in diretta tv sul reality show Love and Hip Hop: New York, frase diventata virale in poco tempo sul Black Twitter, la comunità afroamericana sull’omonimo network. Non a caso: è come se la cancellazione, ovvero la negazione del supporto a qualcuno, nella sfera personale o pubblica, fosse diventato uno strumento soprattutto delle minoranze per ribellarsi alle discriminazioni, avendo ora voce in capitolo e ribaltando lo storytelling in modo democratico, includendo la loro versione.

Ma, come si è visto, talvolta la questione sfugge di mano, degenerando. Lo scorso luglio oltre 150 intellettuali – tra i quali nomi noti come Margaret Atwood, Noam Chomsky, Salman Rushdie e J.K. Rowling – hanno detto no a intolleranze e intransigenze dettate da questo fenomeno. E hanno diffuso sulla rivista “Harper’s Bazaar” una lettera aperta in cui hanno denunciato “nuove forme di censura” negli ambienti progressisti che stanno creando “un clima intollerante all’interno della società”. Nel testo, la cui gestazione è cominciata un mese fa su iniziativa dello scrittore nero Thomas Chatterton Williams, i firmatari hanno preso atto della resa dei conti in atto negli Usa sui temi della discriminazione, ma hanno affermato anche che “le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza stanno scomparendo a favore dell’uniformità ideologica”. Hanno scritto, inoltre: “Le nostre istituzioni culturali sono sotto processo. Le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme a più ampie rivendicazioni per maggiori equità e inclusività nella nostra società, compresa l’università, il giornalismo, la filantropia e le arti”. Ma hanno avvisato: “Lo scambio libero di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, viene soffocato ogni giorno di più”.

La lettera ha portato in superficie un dibattito in corso nelle redazioni dei giornali, le università, case editrici e musei sul costo che il “free speech” rischia di pagare a fronte dei necessari radicali passi avanti sul fronte dell’inclusione. “Inizialmente eravamo preoccupati per la tempistica”, ha spiegato Williams al “New York Times”. “Il dibattito su questi argomenti ci stava a cuore da tempo ma non volevamo che la lettera venisse considerata una reazione alle proteste contro gli abusi della polizia” (con riferimento, per esempio, all’omicidio di George Floyd a maggio 2020). E ancora. Secondo i firmatari, che includono anche giornalisti come Fareed Zakaria, il musicista jazz Wynton Marsalis, lo scrittore Jeffrey Eugenides, la femminista Gloria Steinem e il coreografo Bill T. Jones, “il libero scambio di idee e di informazioni, linfa vitale di una società liberale, sta quotidianamente diventando più limitato. Ce lo aspettavamo dalla destra radicale, ma la censura si sta diffondendo sempre di più nella nostra cultura: una intolleranza delle opinioni divergenti, una moda per l’ostracismo pubblico e la tendenza a dissolvere complessi temi politici in una accecante certezza morale”.

La lettera ha provocato inevitabili polemiche sui social. Un detrattore ha contestato ai firmatari di essere dei privilegiati e di avere “piattaforme più vaste e più risorse della maggioranza degli esseri umani”. Altri hanno attirato l’attenzione sulla firma della Rowling, la creatrice della saga del maghetto Harry Potter, contestata nei mesi scorsi per frasi infelici sui transgender. Almeno due firmatari hanno fatto marcia indietro dopo la pubblicazione, come la giornalista transgender Jennifer Finney Boylan e la storica afroamericana Kerri Greenidge. Altri sono rimasti sulle proprie posizioni: Richard Thompson Ford, un giurista di Stanford, ha difeso il documento come “importante e necessario”. Ford, che ha origini afroamericane, ha detto di aver visto “troppi casi di feroci rimozioni per opinioni difendibili seppure non ortodosse o per minori violazioni dell’etichetta politica. Non capita solo tra i conservatori alla Trump, ma anche in mezzo ai progressisti”. Insomma, il dibattito sulle basi di partenza e sull’opportunità della cancel culture è più che mai aperto e acceso. Ben vengano le riflessioni e le contestualizzazioni alla luce di una società che continua a rinnovarsi costantemente, purché, in generale, non ci si dimentichi di usare un po’ di sano ed elastico buonsenso.  

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