Ermal Meta. Gli invisibili siamo noi

di Cristina Penco
Foto di Paolo De Francesco

Dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei diversi. Quegli “invisibili” destinati a rimanere tali se qualcuno non desse loro una voce, tramite i suoi versi, i suoi suoni, i suoi timbri. È dedicato a loro uno degli undici brani che compongono il nuovo album di Ermal Meta, Tribù Urbana, in uscita il 12 marzo (Mescal con distribuzione Sony Music). Il cantante ha conquistato il terzo posto al Festival di Sanremo 2021 con il brano Un milione di cose da dirti. L’autore, produttore e polistrumentista, albanese naturalizzato italiano, classe 1981, si conferma un raffinato interprete della contemporaneità, in grado di coglierne i frammenti delicati e le sfumature crepuscolari che ha condiviso con noi durante un incontro con la stampa su Zoom.

Ermal, partiamo da Gli Invisibili. Che cosa ti ha ispirato?
“Due anni fa ho fatto un viaggio negli Stati Uniti dove ho scattato molte foto. Ho fotografato soprattutto i senzatetto che mi sono trovato spesso davanti. Uno di loro mi ha raccontato la sua vita. Quel giorno, tra l’altro, era il suo compleanno. In quel momento ho pensato subito che la sua fosse una bellissima storia, ma che nessuno l’avrebbe mai raccontata”.

Allora l’hai fatto tu.  
“Una volta qualcuno mi ha detto: “Cerca di essere invisibile perché le persone invisibili poi imparano a volare”, e credo sia vero. Nella canzone ho immaginato un esercito di invisibili che poi diventano supereroi. Penso che il mondo potrà essere salvato da atti di pura gentilezza, da un “effetto domino” creato da questi gesti. Del resto, tutti noi siamo stati invisibili almeno una volta nella vita”.

foto di Emilio Timi


A te quando è accaduto?
“Mi è successo per tanti anni di sentirmi invisibile: quando ho iniziato a fare l’autore e a scrivere canzoni per gli altri. Lo dico senza intenti di polemica, ma era strano, per me, vedere tante interviste di miei colleghi che raccontavano la nascita di un brano, che in realtà avevo scritto io e loro non ne sapevano assolutamente nulla. Questa cosa mi faceva soffrire e mi faceva sentire invisibile. A un certo punto ho detto: ‘Basta: voglio cantare le mie canzoni e metterci la faccia’”.

Ne “Il destino universale” fai riferimento a “Ermal” che “ha 13 anni e non vuole morire”. A quell’età hai lasciato l’Albania con tua mamma e i tuoi fratelli. Siete venuti in Italia. È un pezzo autobiografico?
“È un insieme di polaroid di vite di diverse persone, parla di quello che avviene ogni giorno. È l’unica canzone in cui cito me stesso. Nessuno lascia la propria casa volentieri. Nello stesso momento avvengono tante cose. C’è un destino circolare che ritorna, prima tocca a me poi a te. La mia è una testimonianza. Torniamo sempre al punto di quello che non si conosce, che fa paura, il diverso. Casa nostra, casa loro, terra nostra, terra loro, mare nostro, mare loro… Non credo sia così. Il movimento dell’umanità è importante. È come il sangue che circola, e deve circolare. Così avviene con gli esseri umani. E io ne sono la testimonianza. O almeno, ho voluto mettere me stesso in mezzo. Anche io ho lasciato la mia terra a 13 anni e non sapevo assolutamente cosa mi aspettasse. Sapevo, però, che per un bene più importante dovevo andare via”.

Nella delicata Nina e Sara al centro c’è l’amore tra due ragazze adolescenti, sbocciato nel Sud del nostro Paese nell’estate del 1987 e fortemente ostacolato dalla realtà circostante, piena di tabù e pregiudizi. Il fatto che ancora oggi le cose non siano troppo cambiate, come risulta evidente dalle cronache, non ti fa tristezza?
“Una tristezza infinita. Per quanto riguarda la libertà individuale siamo ancora nel Medioevo. Il brano nasce da una storia personale. A 16 anni – nella realtà era il 1997 – avevo una fidanzata, la mia seconda fidanzatina, molto strana anche con sé stessa. La vedevo come un’anima in pena, non ero in grado di capire cosa avesse. Dopo due anni che ci siamo lasciati l’ho trovata felice fidanzata con una ragazza. Fino a quel momento non era stata in grado di ammettere a sé stessa che a lei piacevano le ragazze. Aveva questa rabbia, si faceva del male da sola dal punto di vista emotivo. La società non le aveva dato gli strumenti per capire che ciò che provava non era sbagliato. La strada è ancora lunga…”.

Un verso afferma: «La felicità non te la posso garantire, ma la tristezza te la posso risparmiare”.
«Dal punto di vista concettuale ho ripreso il finale di Anna e Marco di Lucio Dalla. Nina e Sara “poi le hanno viste insieme”, si dice anche. Ma dove sono andate? Ricordiamo che avevano solo 16 anni. Tuttavia, almeno in quel momento, per un po’ hanno sognato insieme».

C’è un finale aperto anche in Un milione di cose da dirti, che hai portato al 71° Festival di Sanremo. Hai dichiarato che è una ballad dedicata a un amore verticale: cosa intendi con questa espressione?
“È un amore che considero una semiretta che parte, sale verso l’alto, ma non sai dove va a finire. “Avrai il mio cuore a sonagli. Per i tuoi occhi a fanale”: il “cuore a sonagli” e gli “occhi a fanale” che compaiono sono i due protagonisti. Volutamente non ho usato i nomi, ma ho preferito utilizzare queste immagini fiabesche. Succede spesso che quando due persone si vogliono bene, a un certo punto non si chiamino più per nome. È un annullamento dei confini. Un milione di cose da dirti è una canzone che per me ha la gioia della consapevolezza di aver avuto qualcosa di importante. È quello che provi quando sei felice per aver avuto qualcosa, anziché pensare a quello che non hai avuto”.

Perché hai intitolato l’album Tribù urbana?
“Il titolo mi è venuto in mente una volta finito di ascoltare tutto il disco nel suo insieme. Ci ho lavorato con la voglia di correre quando la libertà mancava, durante il lockdown. Da sempre gli esseri umani tengono a stare vicini, in comunità. La “tribù” è l’anima che unisce le persone, il fil rouge che unisce le persone che vivono un ambiente. Ci sono più colori diversi e tante diversità. La tribù urbana non esiste fisicamente, ma c’è. Come la musica”.

Ermal Meta, cover di Tribù urbana
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