Famiglia, lavoro, pensione: la posizione femminile è troppo debole

La situazione in Svizzera

Secondo uno studio dell’Ufficio Federale di Statistica del novembre 2020, la Svizzera presenta il più alto tasso di donne attive occupate in età da 15 a 64 anni di tutta Europa (76%). Tuttavia, il dato va specificato meglio perché si riferisce al lavoro part-time (62%), modalità contrattuale che rappresenta quasi una normalità nella Confederazione. Naturalmente un’occupazione a tempo parziale permette di svolgere altre attività come gli studi, una formazione continua, gli obblighi familiari o il volontariato. Tuttavia, l’altro lato della medaglia è che, soprattutto a un grado di occupazione relativamente basso, il tempo parziale è associato a rapporti di lavoro più precari, minori opportunità di carriera e condizioni economiche più difficili.

In particolare, le pensioni delle donne in Svizzera sono inferiori in media del 37% a quelle degli uomini, un valore appena al di sotto di quello europeo. In cifre ciò equivale a 20’000 franchi in meno all’anno.

Il divario è una conseguenza di molti fattori, ma se guardiamo ai numeri sicuramente la causa è nel funzionamento del sistema pensionistico svizzero, basato su tre pilastri: l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (previdenza statale), la cassa pensioni (previdenza professionale) e il risparmio individuale con agevolazioni fiscali (previdenza privata). In particolare, è il secondo pilastro che dipende dalla quantità di lavoro e dai contributi versati durante la vita professionale. Ogni anno in cui non si sono pagati contributi o si sono pagati contributi esigui, influisce sull’ammontare delle rendite versate al momento del pensionamento. In più, aumentare la percentuale di occupazione in età più avanzata non basta a coprire le lacune. Le rendite AVS, che tutti ricevono a prescindere dal percorso lavorativo e che non dipendono totalmente dal lavoro, non bastano a vivere e dunque l’ammontare del secondo pilastro è fondamentale per la qualità della vita durante il pensionamento.

Oltre al dato finanziario vi è l’aspetto culturale: sono le donne a rinunciare ad un lavoro a tempo pieno (normalmente fuori casa) o ad un lavoro tout cour per occuparsi della casa e dei bambini. A tal riguardo basta pensare che non esistono asili nido pubblici e che soluzioni “convenienti” cioè a prezzi calmierati sono offerte solo nelle grandi città, obbligando una donna che lavora a ricorerre agli asili privati che costano mediamente piu’ di 2.500 franchi al mese.

In un orizzonte di normale “pace” coniugale non vi sono particolari problemi, ma basta immaginare la situazione in uno scenario “patologico” per rendersi conto di quanto la posizione femminile sia debole. I problemi sorgono e su quelli occorre riflettere quando interviene il divorzio, quando la donna non può più compensare la sua scarna pensione con quella del marito. Per arrivare a fine mese, una donna divorziata può ritrovarsi ad aver bisogno di una prestazione complementare. Stesso discorso vale per le donne non sposate che convivono con un partner e lavorano a tempo parziale.  

Come combattere il rischio che le donne vivano una vecchiaia più povera dopo aver rinunciato alla carriera e al lavoro?

In attesa che la divisione culturale tra donne e uomini all’interno della famiglia si colmi, occorrerebbe attuare una serie di modifiche, tra cui l’introduzione di asili nido pubblici e lavori flessibili che possano garantire il medesimo livello di impiego prima della nascita di un figlio. Sicuramente non basta aumentare l’età pensionabile.

Ragionare solo in termini di “lavorare di piü” a fine carriera è assolutamente miope. In un Paese che conosce una inoccupazione o disoccupazione più basse rispetto a molti Paesi Europei occorre agire per la parità in senso equo.

Questo si converte nel creare condizioni di lavoro e di piena realizzazione di sé quando si è giovani. Non si può pensare di chiedere alla donna di sacrificarsi per la famiglia e poi pretendere la parità quando “ha assolto” a compiti dettati da una società maschilista e patriarcale.

Pur ammettendo la necessità che si innalzi l’età pensionabile per garantire la tenuta del sistema, occorre mettere in condizione le donne di essere autonome e di poter contare su una rendita sufficiente a vivere. In fondo non si tratta solo di un approccio culturale. In media le donne vivono più degli uomini e, se hanno salari e pensione basse, la possibilità che debbano ricorrere agli aiuti sociali è quanto mai realistica con conseguente impoverimento delle casse statali.

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