Giornali e aforismi: Leo Longanesi l’anticonformista

di Amedeo Gasparini

Scrittore, giornalista, pittore, aforista e artista: Leo Longanesi è stato una figura complessa e poliedrica della cultura italiana. Fondatore di riviste – L’Italiano (1926), Omnibus (1937), Il Borghese (1950) – e una casa editrice omonima, è stato il padre di tanti talenti giornalistici. Sofisticato e raffinato, amato e disprezzato, dissacrante e brillante, provocatorio e anticonformista.

«Sono uscito da una famiglia per metà rossa e per metà nera, sentimentale e rissosa, laboriosa e ambiziosa, scettica e religiosa; sono cresciuto in una delle tante famiglie romagnole che, in ottant’anni, riuscirono ad acquistare una casa, a conquistarsi un gradino», ha scritto (Parliamo dell’elefante).

«Sono un uomo inquieto uscito da una famiglia quietissima» (ibid.), ricordava pensando alla giovinezza trascorsa nella provincia a Bologna.
Affascinato dai movimenti futuristi, non ancora maggiorenne Leo Longanesi frequentava i caffè letterari. All’Aragno di Roma conobbe, tra gli altri, Emilio Cecchi e Vincenzo Cardarelli.

Nel frattempo, diventò il protegé (favorito) di Giorgio Morandi. Frequentò a lungo i gerarchi fascisti Dino Grandi e Italo Balbo, suoi corregionali. A metà degli anni Venti iniziò a scrivere per i periodici. A L’Assalto – organo fascista di Bologna – collaborò dal 1920 al 1943. Il Cecchi gli presentò Giovanni Papini, ma gli incontri decisivi avvennero nel 1924 con Mino Maccari e Curzio Malaparte. Di quest’ultimo nel 1927 rilevò la casa editrice La Voce, fondata da Giuseppe Prezzolini.

Poi viaggiò in Spagna e Portogallo. Al suo Omnibus collaborarono tra gli altri Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio, Ennio Flaiano, Alberto Moravia e Mario Soldati. Poco prima del matrimonio con Maria Spadini, il MinCulPop ordinò la chiusura della rivista. Durante la guerra collaborò con il regime nella creazione di slogan, ma al contempo la sua casa editrice pubblicava i testi di Alexis de Tocqueville, Gustave Flaubert, Guy de Maupassant.

Con la caduta del regime fascista, il 26 luglio 1943 celebrò in un articolo di fondo, scritto a sei mani con Pannunzio e Benedetti, il ritorno della libertà. Commentò cinicamente la fine della Guerra: «Perdere una guerra è una cosa disastrosa, ma non è un fatto irrimediabile. Sotto certi aspetti, è bene anche perderne qualcuna di guerre, ma è un errore lamentarsene e dimenticarsene. Il vero guaio è che non abbiamo perduto abbastanza: ci sentiamo quasi vincitori» (ibid.).

Nel 1946, l’anno della nascita della Repubblica, si trasferì a Milano:
«La repubblica è fatta, bisogna compatirla»;
«Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia»;
«Se c’è una cosa che in Italia funziona è il disordine»;
«Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola», scriveva. Sarebbero stati ottimi Tweet per sbeffeggiare una classe politica magra di idee, alla ricerca del consenso spicciolo e senza visione.

«L’Italia è una democrazia in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella sovietica e l’ultimo è disposto ad adattarsi alla prossima dei democristiani».
Nel 1948 scrisse di Alcide De Gasperi: «poveretto, è un Atlante che regge un vaso di merda». Al Borghese, fondato nel 1950, collaborarono Mario Missiroli, Giovannino Guareschi, Goffredo Parise, Giovanni Spadolini, Mario Tedeschi, Colette Rosselli, Giovanni Ansaldo, tra agli altri. Anticomunista, anticonformista; i democristiani spingevano per una chiusura del mensile. Longanesi litigò con Montanelli per i fatti d’Ungheria: pensava si trattasse di una rivolta borghese, mentre Montanelli che fosse una rivolta per un socialismo reale più soft.
«Leo aveva tante idee, quante bastano per non credere a nessuna», scrisse Montanelli.

Dopo un’ultima lettera a Gianna Preda il 25 settembre 1957, il 27 attorno alle sedici Longanesi ebbe un infarto in ufficio. Aveva cinquantadue anni. Gli sarebbe piaciuto scrivere dell’Italia che è seguita.

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