Identità e populismo

di Amedeo Gasparini

In Identità (UTET, 2019) Francis Fukuyama offre un viaggio all’interno della ricerca dell’“ultimo io”, l’io determinato alla fine del secondo decennio del ventunesimo secolo; un percorso utile a capire il fascino che oggi esercitano i regimi illiberali, autocratici e autoritari; l’indebolimento della fede nella liberaldemocrazia; le istanze alla base del chiassoso incremento delle formazioni populiste. Parte tutto da lì: dalla ricerca dell’identità. Un’identità perduta o debole; un’identità da riaffermare o fortificare in un mondo sempre più intricato. Paradossalmente, le minacce alle odierne democrazie sono nate all’interno delle democrazie stesse: la più rilevante, seguendo una lettura decisamente demagogica è la perdita di identità del popolo in questione; lo scialacquamento della “we-ness”, del senso del “noi” come nazione, cultura, popolo.

«La politica identitaria contemporanea è trainata dalla ricerca di pari riconoscimento da parte di gruppi che sono stati emarginati dalle loro società», scrive Fukuyama. Il riconoscimento dell’“io” da parte degli altri è anche un attestato di dignità. Dignità che sembra perduta dal dopo crisi economico-finanziaria, a cui si è sommata anche quella sociale. Al tal proposito, un esempio storico abbastanza recente che certifica la difficoltà nel conciliare politica-dignità-identità, è lo scoppio delle primavere arabe: in parte «rivoluzioni della dignità», della ricerca dell’individualismo e dell’autodeterminazione. Questa, una prerogativa tornata di moda nell’ultimo decennio. Fukuyama, a metà tra filosofia e politica, sociologia e storia, presenta al lettore tre concetti che aiutano a capire non solo come nascono le moderne democrazie, ma anche le dinamiche attorno alle sempre più intense richieste di valorizzazione identitaria da parte di alcuni strati sociali (solitamente i più deboli, quelli che lamentano una perdita di identità nazionale nel calderone multinazionale).

Il concetto di thymos – «sede della rabbia e dell’orgoglio», «parte dell’anima che ambisce al riconoscimento della dignità» – viene introdotto da Fukuyama assieme a quelli di isotimia – l’«esigenza di essere rispettati su una base paritaria con gli altri» – e megalomitia, l’«ambizione di essere riconosciuti come superiori». In questo senso, in diverse realtà odierne, l’io – alla base della dignità umana – è labile e cambia repentinamente: la globalizzazione mette in dubbio le certezze ancestrali e nazionali (quelle che razionalmente conferirebbero sicurezza all’individuo); e quindi «il senso moderno dell’identità evolve rapidamente in politica identitaria, nella quale gli individui pretendono il pubblico riconoscimento del loro valore.»

La domanda di riconoscimento dell’identità viene posta su vari piani: culturale, storico, politico, economico. L’identità e la ricerca della medesima, nonché il ritorno prepotente della stessa sullo scenario sociale (e magari, assieme ad essa, il diritto di doverla ritenere superiore a quella degli altri) sono la ragione “filosofica” che sta dietro alle istanze populiste. Nell’era della globalizzazione, il miscuglio identitario – e i confini sempre più labili tra politica e società e tra politica ed economia – non sempre è accettato da parte delle popolazioni, desiderose di tornare ad uno stato di “semplicità” ancestrale, basata su un’identità perduta, masticata dagli ingranaggi della “società apertissima”. Quella che ha arricchito i ricchissimi e migliorato le condizioni dei poverissimi, ma che in certi strati ha ferito la classe media.

«All’inizio del XX secolo», continua Fukuyama, «la versione liberale della dignità fu affiancata da un’altra dottrina universalista, il Socialismo marxista», fino a quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i due emersero come poli. Discreditato il Fascismo a metà degli anni Quaranta – e il suo improbabile e fallimentare nazionalismo – anche il Socialismo subì gravi crepe, ma non fu rimosso del tutto dall’immaginario collettivo. Anzi: era una delle due alternative della Guerra Fredda. Screditato e sconfitto sotto le macerie di Muro di Berlino, il Socialismo ha lasciato spazio – anche alle terre che erano cresciute sotto la bandiera rossa – alla democrazia liberale e il liberalismo. Libero mercato e società aperta hanno dunque conquistato gran parte del globo dal 1989 in poi; e tale ordine è durato una ventina d’anni; tanto è vero che Fukuyama parlò di «fine della Storia», come fine di opzioni politiche plausibili da contrapporre a quella vincente del post-1989.

Oggi, «i cittadini amareggiati che temono di perdere il loro status di ceto medio puntano il dito accusatore verso l’altro contro le élite, per le quali sono invisibili, ma anche verso il basso contro i poveri, che ritengono immeritatamente e ingiustificatamente favoriti.» Il risultato? Altre classi vengono additate per i problemi di altre classi: una sorta di guerra tra classi è dunque al contempo la causa e l’effetto del successo delle formazioni demagogico-populiste (nonostante, come in tutte le guerre sociali, i conflitti sono conflitti tra poveri). Da aggiungersi poi che i piromani sociali – che più che soluzioni all’incendio sociale, spruzzano cherosene – grazie belle frasi di stampo socialista (populista) o nazionalista (populista), sono «in grado di tradurre la perdita della relativa posizione economica in una perdita di identità e status».

E sebbene dal 1970 al 2008 la produzione dei beni è quadruplicata e dal 1993 al 2001 la povertà estrema si è ridotta dal quarantadue al diciassette per cento, la liberaldemocrazia è sotto attacco. Ad uscirne rafforzati, in quest’ottica, sono i vecchi-nuovi modelli autocrati, visti come esempi vincenti ed efficienti. Ripristinatori di identità antiche, «loro sì che fanno i loro interessi nazionali», dicono i populisti da Nord a Sud filo-Russia e filo-Cina (dimenticando che gli interessi nazionali cinesi o russi sono l’opposto dell’interesse nazionale che i demagoghi vogliono portare avanti nel loro paese). In particolare, il “modello Cina” – ma anche quello russo – è ammirato financo nei paesi di intensa storia democratica. Molti, – dal comodissimo Occidente liberaldemocratico – sostengono che in un regime privo di pesi e contrappesi, con l’uomo forte al comando, siano più attenti alle istanze individuali e dunque all’identità – e dignità – dei singoli. Non è mai stato così; in nessun regime che non fosse liberaldemocratico.

Quello attorno all’identità è il tema centrale del dibattito (geo)politico odierno: è alla base del ritorno del nazionalismo (di destra, inteso come valorizzazione estrema della propria cultura, con l’implicita credenza di dover sottomettere le altre) e dello statalismo (di sinistra, inteso come meccanismo attraverso cui lo Stato regola consumi e vita dei cittadini col controllo centrale). L’identità ha tante sfaccettature: sebbene gli arruffapopoli estremisti e cialtroni vogliano usare il pretesto identitario per affermare su scala internazionale la propria politica (e la propria figura e carriera), andrebbe ricordato loro che il concetto di “identità” non serve solo a dividere i popoli, ma anche unirli.

 

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