Il buio oltre la siepe

Certe immagini delle breaking news delle reti americane sono talmente scenografiche, spettacolari, esagerate nella loro violenza da assomigliare a trailer di film di Quentin Tarantino o Ridley Scott. Come le rivolte in atto a Minneapolis in questi giorni, ma anche in molte altre cittàdegli States, da dove arrivano notizie di centri commerciali devastati, un commissariato e centinaia di auto date alle fiamme, strade invase dai lacrimogeni e collegamenti pubblici sospesi tanto da aver fatto invocare al sindaco lo stato di emergenza e da far minacciare da Trump l’arrivo dell’esercito. E come le immagini dell’episodio da cui queste proteste sono nate, ancora più raccapriccianti, perché filmate sotto gli occhi di testimoni di fronte ai quali la violenza di un poliziotto assassino sembrava essersi messa in posa con sguardo di sfida verso gli spettatori, mentre ammazzava spietatamente un cittadino afroamericano. Un cittadino reso inerme dalle manette e dalla faccia schiacciata sull’asfalto, con un ginocchio piantato sul collo che gli toglieva il respiro. Si chiamava George Floyd e il suo disperato “i can’t breath” ora risuona per protesta sui social di tutto il mondo. Era nato a Houston quarantasei anni fa e si era diplomato alla Jack Yates High School; lì aveva  giocato a football con il suo amico Steven Jackson, che un giorno sarebbe diventato giocatore della NBA, e che oggi racconta di George che si era  trasferito in Minnesota per fare l’autista di camion e per diventare “la parte migliore di sé”. “La differenza tra me e questo mio fratello George è che ho avuto più opportunità di lui”, ha scritto Jackson su Instagram. “Veniamo entrambi dal basso e i nostri nomi vivranno per sempre”. Jhon Thunstrom, il suo capo al bistrot dove Floyd ha lavorato per cinque anni, racconta che George era simpatico e gentile con i clienti e andava d’accordo con i colleghi.

“E’ un delitto sparare a un usignolo” – insegna Atticus Finch ai suoi bambini  nel libro “Il buio oltre la siepe”- “gli usignoli non fanno male a nessuno e creano una musica meravigliosa”. Citazione da incidere sulla pietra e da cui nasce il titolo originale del romanzo, “To kill a mockingbird” e al fim che ne fu tratto, a cui ho ripensato in questa ennesima brutta vicenda di razzismo. Però una cosa sia chiara. George oggi è come Tom, il nero del romanzo accusato ingiustamente di violenza. Ma George è anche uno dei “nostri” Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Stefano  Cucchi, solo per citarne alcuni. Essere razzisti oggi, nel 2020 come nelle inquisizioni medioevali, ha confini ancora più vasti della etnia, significa sentirsi superiori per decine di ragioni, compreso il disagio sociale di un tossicodipendente o di un malato di mente; è anche nella presunzione di essere giudice e boia esercitando   un sadismo vigliacco su chi non può difendersi, magari per compensare frustrazioni e sconfitte personali, in quel che da noi in Italia si chiama abuso di potere e che lì negli Usa è chiamata col suo nome più vero, “police brutality”. Tutto questo ci rende protagonisti in una trama intrisa dei nostri preconcetti e pregiudizi che, purtroppo, oggi vanno ancora oltre quelli legati al colore della pelle. Perché il buio oltre la siepe dei nostri limiti culturali, nostri, già, e non solo americani e non solo nei film, di quei pregiudizi ne abbraccia davvero ancora troppi.

 

 

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