Il nuovo Governo e gli interventi prevedibili in tema di lavoro

Il Governo PD-M5S è ormai una realtà. Dopo giorni di attese e consultazioni il nuovo Esecutivo ha giurato sulla Costituzione e dunque in attesa di conoscerne le prime mosse possiamo sin d’ora affermare che i problemi più annosi da risolvere nel programma di questa nuova coalizione non sono da ricercare nell’ambito del lavoro. Il Movimento 5 Stelle e il Pd hanno da sempre posizioni molto vicine, in particolare a quelle del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, portatore di una impostazione decisamente a sinistra rispetto al recente passato. In forza di queste considerazioni potremmo sin da ora delineare il programma dei nuovi alleati per quanto concerne il lavoro e le relazioni industriali.

Per quanto concerne questi temi, il comune deminatore tra le due forze politiche è la certezza che il tempo attuale, inteso in senso sociale ed economico, richieda il riposizionamento dello Stato al centro. L’operazione sarà verosimilmente a scapito della sussidiarietà verticale (si può immaginare che i processi di autonomia saranno osteggiati) e di quella orizzontale (i sindacati e le associazioni di categoria torneranno ad occuparsi degli spazi concessi dal Legislatore). Ed in questo caso non vi è alcuna forza politica al Governo a credere quanto meno nel rafforzamento dell’autonomia delle amministrazioni più vicine al cittadino e quindi bilanciare questa forza centripeta. Al contrario, il tema è da sempre osteggiato sia dal PD, che aveva indetto un referendum costituzionale volto proprio a redistribuire maggiori poteri verso lo Stato, sia dal Movimento 5 Stelle, che ha eletto i territori che non possono contare sulle amministrazioni periferiche perché in dissesto, a proprio serbatoio di voti.

“Se l’assioma che guiderà
l’azione di Governo è “piu’ Stato”
quali saranno i diretti corollari?”

Il primo nodo del programma rappresenta anche un punto cruciale sia per il Partito Democratico sia per il M5S, cioè l’approvazione di un salario minimo fissato per legge, finalizzato, almeno in teoria, ad innalzare i livelli salariali italiani.

La proposta della Capogruppo alla Commissione Lavoro in Senato del M5S, Nunzia Catalfo, è già in buono stato di avanzamento e il PD non avrebbe particolari impedimenti a votare un testo nella sostanza vicino a quello presentato da un suo esponente di spicco, l’onorevole Tommaso Nannicini.

È evidente che a questo intervento, seguirebbe l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale e datoriale, necessaria per potere individuare i contratti collettivi più rappresentativi e quindi deputati a diventare riferimento in ogni settore. L’effetto sarebbe la demolizione di due capisaldi dell’autonomia collettiva e della storia del movimento sindacale, perchè si legittimerebbe l’ingresso della legge a regolamentare il contratto ormai relegato ad essere fonte secondaria.

Tuttavia, la storia delle relazioni industriali ha dimostrato quanto i contratti siano di gran lunga più efficaci nel regolamentare tempi e modi del lavoro. Tra l’altro la mossa potrebbe dispiacere a quelli tra i sindacati più vicini al neonato Governo.

Anche in questo caso potremmo prevedere però, in funzione consolatoria, l’approvazione di misure care alle organizzazioni sindacali. Ci si riferisce alla possibilità di mettere mano alla materia del licenziamento collettivo, al rafforzamento del Decreto Dignità (al massimo potrebbe esservi un intervento di consolidamento sulle causali necessarie per la stipulazione dei contratti a termine) e l’incoraggiamento delle sole assunzioni a tempo indeterminato per il tramite di incentivi economici ad hoc (come fu fatto ai tempi del Governo Renzi), finanziati dal superamento della flat tax per i lavoratori autonomi, destinati a tornare ad essere visti come evasori “fino a prova contraria”.

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, è palese la volontà dei dirigenti del PD di entrare nei meriti di questa misura. Perchè a dirla tutta, vi era la convinzione che la concessione degli 80 euro e il Reddito di Inclusione fossero già una “misura estrema”. In realtà il Movimento 5 Stelle ha dimostrato di saper disegnare un programma di più vasta portata e soprattutto finalizzato a migliorare le condizioni di vita delle fasce più deboli. L’argomento è stato ed è ancora dirimente in una situazione complessa come quella italiana. Ed ecco perchè molto probabilmente il PD vorrà fare parte del progetto. Il rischio, in caso di scelta contraria, è fare la figura di quelli che si disinteressano alle difficolta dei non abbienti; in ultima analisi di non potersi definire “di sinistra”.

Dal punto di vista legislativo può accadere che il PD cerchi di inserire nel reddito di cittadinanza alcuni contenuti delle proprie proposte precedenti, per rendere quella misura non una novità ma una evoluzione, in chiave sociale, dell’azione che fu di Renzi e Gentiloni. In realtà già Renzi aveva tentato con il Referendum Costituzionale del dicembre 2016 di introdurre il riaccentramento delle politiche attive allo Stato, che avrebbe affidato la competenza all’ANPAL, creata proprio a questo scopo (e poi rimasta inutilizzata). Ma il M5S è andato oltre. Basti pensare ai Navigator che altro non sono che un tentativo di controllo statale delle politiche di ricollocazione.

Certamente, aldilà delle premesse e delle evoluzioni, i partiti al Governo presentano molte connessioni. Questo presenta vantaggi e svantaggi. Nel caso di specie il vantaggio è che le azioni dovrebbero seguire ai proclami. Gli svantaggi, viste sinteticamente le posizioni, riguardano il mercato del lavoro e le relazioni industriali perchè il sistema, se realizzato, porterebbe l’Italia molto più vicina all’agenda degli anni Settanta che a quella del 2030.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami