La questione dietro il referendum su Frontex

Woman votes on election day.

di Marco Nori, CEO di Isolfin

La Svizzera è una democrazia che, per statuto, fa un largo uso di referendum come forma di democrazia diretta e il 15 giugno i cittadini della Confederazione verranno chiamati alle urne per un quesito in apparenza marginale: il recepimento del regolamento UE relativo alla guardia di frontiera e costiera europea, conosciuto come Frontex, che è l’agenzia europea cui è affidato il sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dello Spazio Schengen e dell’Unione Europea (UE). La Svizzera non è un paese dell’Unione Europea, non ha coste e nemmeno frontiere esterne, dunque, dovrebbe essere secondariamente coinvolta dalla questione. Infatti, l’occasione del referendum è l’aumento della quota di contributi che passerà da 24 a 61 milioni di franchi l’anno: cifre rispettabili nell’economia reale, ma certo non preoccupanti per un’economia avanzata.

Questo referendum è un’arma a doppio taglio, anzi triplo, se mi permettete il paradosso. Per prima cosa è stato promosso dall’associazione Migrant Solidarity Network che contesta duramente la politica migratoria attuata da Frontex, i respingimenti e, secondo l’associazione, il mancato rispetto dei diritti umani. Le associazioni umanitarie intendono approfittare dell’occasione del referendum per l’aumento dei contributi per scardinare tutto l’apparato di Frontex e sostituirlo con una politica di accoglienza verso i migranti. Ma adesso che il referendum è programmato, ci si è accorti che la sua portata va molto al di là di Frontex.

La Svizzera partecipa al budget di Frontex perché è membro dello spazio Schengen, nel quale le persone possono circolare liberamente. Da un lato, a livello di principio, è difficile opporsi a questo aumento di contributi. Frontex compensa i paesi che sorvegliano le frontiere esterne dell’Europa e non possiamo accettare la libertà di viaggio all’interno di Schengen rifiutandoci però di contribuire alla sorveglianza dei suoi confini lasciando le spese solo agli altri, tra cui l’Italia.

Se la Svizzera dovesse respingere l’aumento di bilancio, le conseguenze si ripercuoterebbero sulla permanenza stessa all’interno di Schengen perché non si può essere membri di un circolo senza pagare la quota. Le conseguenze sarebbero immediate in molti settori della nostra economia (turismo ed esportazioni) e in quella dei nostri vicini per via delle centinaia di migliaia di transfrontalieri (ancora loro…). E un rifiuto peggiorerebbe ancora di più le già tese relazioni con l’Unione Europea.

È dunque una nuova occasione per gli euroscettici di portare il paese lontano dall’Europa, dopo che un altro referendum tenutosi nel maggio 2020, che chiedeva se porre fine alla libertà di movimento dei cittadini europei in Svizzera, era stato respinto. Quello era stato promosso limpidamente come la Brexit della Svizzera, ma in questo caso la situazione è subdola. Un rifiuto innescherebbe un’uscita da Schengen, ma non è questo che dice il referendum, che invece menziona solo il regolamento UE della guardia di frontiera e costiera europea.

Qui sta il terzo taglio della lama. La vicinanza e la collaborazione con l’Unione Europea innescano molteplici meccanismi di coordinazione che non possono essere scelti uno per uno a seconda delle convenienze: sono un blocco. Quando ogni modifica singola può essere rifiutata per referendum, provocando la rottura dell’intero apparato, significa camminare sulle uova. Questo non è un consapevole passo fuori dalla porta dell’Unione Europea con i dovuti saluti e preparativi per la partenza, assomiglia più a un inciampo nel quale la Confederazione rischia di rompersi una gamba.

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