La sessione primaverile del Parlamento svizzero

Nel mezzo della tempesta perfetta che stiamo vivendo, le grandi questioni politiche sono passate in second’ordine e in qualche caso sono scomparse del tutto dall’agenda. Al Covid-19 sono bastati un paio di mesi per mettere in crisi le nostre certezze e per modificare radicalmente la situazione in vaste aree del mondo, obbligando i governi a misure drastiche, di applicazione non sempre verificabile. La decisione del governo italiano di estendere il perimetro della “zona di sicurezza” a tutta l’Italia, introducendo restrizioni rigide alla mobilità in una mega area intensamente abitata e cuore pulsante dell’economia italiana, è rimbalzata immediatamente a livello mondiale. L’Italia, come hanno scritto molti opinionisti, è diventata improvvisamente un test per tutte le democrazie occidentali, che non possono introdurre restrizioni impopolari – come nel sistema autoritario cinese – bypassando le regole del gioco democratico e le opposizioni.

La Svizzera, per molteplici ragioni, segue con grande attenzione le strategie messe in campo dal governo italiano nella lotta al Coronavirus; non solo per la dimensione numerica del lavoro frontaliero (oltre 70mila lavoratrici e lavoratori che giornalmente attraversano la frontiera, provenienti soprattutto dalla Lombardia) e del suo impatto sull’economia dei Cantoni interessati, il Ticino in cima a tutti, ma per i risultati che le misure attivate produrranno nella lotta al contagio.

Intanto, l’epidemia sta producendo i primi effetti sul mercato del lavoro elvetico: aumentano le domande di lavoro ridotto inoltrate dalle aziende e dagli esercizi colpiti dalle misure stabilite dal Consiglio federale il 1° marzo scorso per frenare il rischio di contagio.

Preservare la salute della popolazione è il primo pensiero delle autorità cantonali e federali; ma crescono anche le preoccupazioni per le conseguenze del Coronavirus sull’economia che rischia di deragliare in gran parte del mondo. Le borse valori stanno bruciando i profitti messi a segno nel 2019 e il crash che ha sconvolto il mercato del petrolio – nella seduta di apertura di lunedì il prezzo del petrolio è andato letteralmente a picco, perdendo il 30% – si è abbattuto ovunque sui titoli azionari con l’impeto di un uragano: si profila una recessione globale, con esiti non dissimili da quella del 2008.

Intanto il Parlamento svizzero ha deciso di proseguire la sessione primaverile dei lavori parlamentari, respingendo un ordine del giorno del Consigliere nazionale Thomas Aeschi, non votato anche da numerosi suoi colleghi dell’UDC. Un gesto di responsabilità rispetto alla crisi sanitaria che sta vivendo il paese, per altro accompagnato da ulteriori misure preventive come l’inasprimento delle norme di accesso al Parlamento da parte del pubblico, o la messa a disposizione di altri locali per le riunioni al fine di garantire la migliore distanza tra le persone.

Le istituzioni, dunque, non si fermano e la politica non interrompe il suo corso. Sommessamente, tra le pieghe dei lavori parlamentari, si è tornato a parlare dell’accordo quadro con l’Unione europea, parcheggiato da mesi sul binario di sosta, giacché tutte le forze politiche temono di entrare apertamente in materia. Per due ragioni: primo, l’iniziativa dell’UDC contro la libera circolazione – “per un’immigrazione moderata (iniziativa per la limitazione)” – pende come una spada di Damocle sul dibattito politico e molti temono di pronunciarsi prima delle elezioni che come noto si terranno il 17 maggio 2020; secondo, nonostante i sondaggi siano sfavorevoli all’UDC, si è allargato il fronte dei politici che ritengono molto difficoltosa l’applicabilità dell’accordo negoziato dal Consiglio federale.

Sullo sfondo vi sono poi le condizioni del negoziato tra l’Ue e i britannici, che ora entra nella seconda e decisiva fase; da una parte l’Ue sembra attestata su posizioni rigide, in particolare su alcuni dossier; dall’altra le dichiarazioni bellicose di Boris Johnson, pronto alla rottura con l’Ue e al divorzio senza accordi, la separazione con il “no deal”, che farebbe del Regno Unito una sorta di paradiso fiscale ultraliberista davanti alle coste del continente. Non senza conseguenze, tuttavia, per il sistema industriale britannico, così come per i suoi servizi finanziari e le ricadute politiche su Scozia e Irlanda del Nord.

I palazzi del potere a Berna sono dunque proiettati su quanto sta accadendo e un probabile ripensamento dell’accordo raggiunto affiora sempre più. Gli aspetti che occorre rinegoziare con rinnovate valutazioni si sono materializzati in questi mesi; accanto a quelli critici già noti – come la protezione dei salari e le misure antidumping, o l’allargamento della clausola ghigliottina – vi sono altre importanti tematiche che non combaciano con la realtà cantonale e federale svizzera.

 

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