Lo sport contro il razzismo

“I can’t breathe”. Sono parole divenute tristemente note durante questi ultimi giorni. Parole che non lasciano spazio ad alcuna immaginazione. “I can’t breathe” – “non riesco a respirare” – sono state le ultime parole di George Floyd, il ragazzo afroamericano morto lo scorso 25 maggio a Minneapolis sotto il ginocchio di un poliziotto che lo asfissiava.

E così, mentre in molte città americane la protesta dilaga nelle strade e nelle piazze al grido di “Black lives matter”, anche grandi nomi dello sport hanno deciso di prendere posizione e di condannare in maniera netta quanto successo.

Primo fra tutti Stephen Jackson. L’ex cestista americano era un amico fraterno di Floyd e ora ha promesso di occuparsi di sua moglie e soprattutto della piccola Gigi, sua figlia: “Ci sono tante cose che George non potrà più salvaguardare, soprattutto la sua famiglia. Per quanto possibile, mi occuperò io di loro. Aiuterò entrambe economicamente ed emotivamente, asciugherò le loro lacrime. Sono qui in quanto essere umano, sono qui per chiedere giustizia e sono certo che otterremo giustizia per mio fratello. Non lasceremo nulla al caso, ci batteremo per ottenere un cambiamento e non staremo in silenzio fino al raggiungimento del nostro scopo.”

Come lui, tanti altri. Floyd Mayweather, ex pugile e campione del mondo in cinque categorie diverse, ha deciso di pagare di tasca propria tutte le spese per il funerale di George Floyd. Una reazione d’istinto, un modo per dimostrare la propria vicinanza anche da un punto di vista economico.

Lewis Hamilton invece, ha puntato il dito contro i suoi colleghi della Formula 1 definendolo “uno sport dominato dai bianchi”: quel suo “Vedo quelli di voi che stanno zitti” ha spinto molti suoi colleghi a prendere finalmente posizione, come Charles Leclerc che si è detto “disgustato da quanto successo a Minneapolis”. La protesta non conosce confini e continua anche nel mondo del calcio. In Bundesliga, l’unico dei grandi campionati europei ad aver riaperto i battenti, tre diversi giocatori, Thuram, Sancho e McKennie, hanno deciso di celebrare le loro reti rendendo omaggio a Floyd, rischiando di andare incontro anche ad una possibile sanzione da parte del comitato di controllo della Federcalcio tedesca. Sanzione che non è arrivata, accogliendo la richiesta avanzata anche dalla FIFA: “A scanso di equivoci, in una competizione FIFA le recenti dimostrazioni di giocatori nelle partite della Bundesliga meriterebbero un applauso e non una punizione” – queste le parole di Gianni Infantino, presidente della federazione – “Dobbiamo tutti dire di no al razzismo e a ogni forma di discriminazione. Dobbiamo tutti dire di no alla violenza. Qualsiasi forma di violenza”.

Dimostrazioni di sostegno arrivate anche da altre squadre, come il Liverpool o il Chelsea, che hanno postato alcune foto sui loro profili social ufficiali raffiguranti i giocatori in ginocchio, gesto simbolo della protesta – che, paradossalmente, in questo caso è anche gesto simbolo del carnefice. Un gesto provocatorio e pieno di rabbia che nasce dallo sport, proprio come l’indimenticabile pugno nero di Tommie Smith e John Carlos durante le Olimpiadi del Messico nel ’68. La paternità del gesto, infatti, si deve a Colin Kaepernick, ex quaterback dei San Francisco 49ers, che il 26 agosto del 2016 decise di inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno americano, poco prima di un amichevole. Interrogato sul gesto rispose: “Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le minoranze etniche.” Era, all’epoca, un gesto motivato e ispirato dall’uccisione di un altro afroamericano 26enne, Mario Woods, morto per mano della polizia nel dicembre 2015 dopo essere stato colpito a morte dagli agenti con oltre venti colpi di pistola. Quel gesto, così potente, gli valse la carriera. Difatti quella fu l’ultima stagione di Kaepernick, dopo che entrò in aperta polemica con alcuni suoi colleghi e anche con il presidente Trump.

Ma oggi, quel gesto, sta ispirando milioni di persone. Lebron James, Michael Jordan, Kareem Abdul Jabbar, Eric Haaland, Serena Williams e innumerevoli altri grandi nomi hanno deciso di urlare al mondo che non è più possibile morire a causa del colore della pelle. Hanno deciso di sostenere una battaglia che dovrebbe riguardare tutti noi come esseri umani.

E allora chissà, magari da questa terribile tragedia potremmo davvero uscirne migliori. Così da rendere giustizia a George Floyd e a tutte le altre persone vittima di razzismo.

Forse riusciremo anche a dare ragione alla piccola Gigi Floyd e alle sue parole pronunciate durante una manifestazione a Minneapolis: “Daddy changed the world!” – “Papà ha cambiato il mondo!” Lo speriamo tutti, piccola Gigi.

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