Migranti e l’”ambigua debolezza dell’Europa”

«I confini della Ue non sono aperti e non devono esserlo, ci troviamo ad affrontare una pressione straordinaria ai confini perciò serve solidarietà. Dobbiamo proteggere i confini ma nel pieno rispetto dei diritti umani, non c’è contraddizione tra difendere i nostri confini e difendere i diritti umani». Queste le parole pronunciate qualche giorno fa dalla Commissaria agli aiuti umanitari dell’Unione Europea, che ci consegnano tutta la complessità della situazione. Da un lato, il messaggio rivolto alle paure di molti confermano la volontà di preservare i confini della «Fortezza Europa» – come ebbe a definirla qualche anno fa Saskia Sassen – e, dall’altro, il disperato tentativo di dare rappresentazione di una UE vigile alla salvaguardia dei diritti umani.

La verità probabilmente è un’altra: per l’ennesima volta emerge l’ambigua debolezza dell’Europa. Ho preso in prestito, modificandolo, il titolo del saggio di qualche anno fa di Biagio De Giovanni, “L’ambigua potenza dell’Europa”. De Giovanni, tra le sue diverse tesi, sottolineava il fatto che per portare a compimento il processo di costruzione ideale dell’Europa (filosofica, dal suo punto di vista) occorreva, tra l’altro, manifestare la sua potenza. Questa manifestazione doveva avvenire attraverso l’istituzione della forza militare. In altre parole, serviva un esercito europeo che doveva di fatto sostituire o inglobare quelli nazionali. I confini di quella che via via stava diventando una «fortezza» dovevano essere difesi da un esercito comunitario. Come sappiamo ciò non è mai accaduto e difficilmente accadrà mai.

Si è preferito utilizzare uno strumento diverso e per niente nuovo. Come nel passato, anche in questo caso, si è scelto di far fare il lavoro sporco ad altri. E così, invece di affrontare la questione in termini geopolitici – più facile a dirsi che a farsi, vista l’ambigua debolezza dell’Europa – si è scelto di pagare qualcuno. Sei miliardi di euro alla Turchia affinché tenesse parcheggiati milioni di poveri cristi. Lo stesso hanno fatto, negli ultimi vent’anni, i vari governi italiani con la Libia, gli altri governi del cosiddetto mondo occidentale (come si sarebbe detto un tempo) in giro per il mondo.

In questi giorni, a dire il vero in maniera molto marginale e con scarsa attenzione da parte dei media (causa Coronavirus), alle porte della fragile Europa è scoppiata l’ennesima emergenza. Duecentomila i profughi assiepati ai confini con la Grecia e novecentomila gli sfollati che potrebbero arrivare secondo la Caritas nelle prossime settimane. Improvvisamente, ce ne eravamo dimenticati fin troppo in fretta, ci siamo ricordati che avevamo pagato qualcuno per tenere questa umanità lontano da noi. D’altronde, l’importante non era risolvere il problema, trovare soluzioni, bensì l’unica cosa che contava, per tutta l’Europa, nessuno escluso, era fermare l’invasione. Quanto reale, quanto per- cepita, non conta, l’unica cosa che contava era rassicurare l’opinione pubblica europea che altri disperati non sarebbero arrivati. Quanto sia precipitata la situazione è comprensibile da una battuta della Presidente della Commissione: «la Grecia è il nostro scudo».

Se qualcuno avesse letto questa frase nel 1970 avrebbe potuto pensare che contro il paese ellenico fossero stati puntati i missili nucleari. Invece, questi missili sono persone, donne, uomini e soprattutto bambini che chiedono disperati il diritto di vivere o, peggio, di sopravvivere. Perché di questo si tratta, non di altro.

L’attesa. 27 dicembre 2015, campo di trafficanti, Çeşme, Turchia. © Simona Bonardi

Tuttavia, ancora una volta la soluzione immaginata rischia di essere sempre la stessa. Stanziamo un po’ di fondi alla Grecia, come in pas- sato facevamo con l’Italia. Alla peggio concediamo nuovamente qualche euro alla Turchia, così da farle continuare il lavoro sporco per noi, e poi chissà, prima o poi questi disperati si stancheranno e torneranno a casa loro.

Qualcuno potrebbe risponderci: «Questa è la Realpolitik, cosa immagini si possa mai fare?!». Questo è il punto. Probabilmente è giunto il momento di ribaltare il paradigma, partendo da un duplice presupposto di fondo. Primo: l’Europa ed in essa molti Paesi come l’Italia sono ormai tra i più longevi (o vecchi, ognuno scelga l’espressione che preferisce) del mondo; secondo: molte di queste economie soffrono strutturalmente e non riescono a riprendersi. Se aggiungiamo il fatto che l’Europa con i suoi 500milioni di abitanti è una piccola marginalità in questo mondo globale, probabilmente ogni soluzione che perseveri sulla strada fin qui vista rischia di essere fallimentare e di corto respiro. Cosa fare allora? Come tentare di risolvere il problema? Non vi meravigliate, con una soluzione altrettanto vecchia, ma che da decenni facciamo finta che non sia mai esistita: aprire le porte, aprire i confini.

Esempio pratico: «Si devono sbloccare i cantieri. Solo così riparte l’economia». E ancora: «Servono case, edilizia popolare nelle città», o ancora: «Abbiamo messo in vendita le case a 1 euro simbo- lico, affinché vengano riabitate le case abbandonate nella provincia italiana». A prima vista sembrano contrastanti e che c’entrano poco con il tema fin qui affrontato, ma non è così. Ammesso che domani mattina sbloccassimo tutti i cantieri, dove prendiamo la manodopera? Convertiamo in muratori, carpentieri e manovali migliaia di nostri laureati e diplomati che non trovano lavoro e che ormai emigrano nuovamente verso l’estero come negli anni Sessanta? Oppure, spostiamo tutti coloro che vivono nelle città, nei minuscoli paesini di provincia, sventolando la bandiera della decrescita felice?

E ancora: «Bisogna aiutarli a casa loro», così le nostre imprese lavorano nei loro paesi e loro possono vivere meglio e non pensare lontanamente di invaderci. La Storia ci insegna che funziona esattamente in modo opposto. Per aiutare le nostre economie, per far ripartire i nostri consumi ed il nostro Pil necessitiamo di persone, che lavorano, che spendono, che vivono i luoghi.

Serve un piano shock per l’economia europea, italiana, tedesca, ecc. lo sentiamo quasi tutti, ma nessuno ha mai il coraggio di proporlo davvero. D’altronde, fino alla Rivoluzione Francese, l’immigrazione era una risorsa e l’emigrazione una piaga, con l’imperialismo europeo cambiò quest’assioma che ci siamo portati fino a giorni nostri. Eppure, se solo analizzassimo la recente storia europea, capiremmo che il mondo funziona proprio diversamente. Negli ultimi 70 anni, le economie che sono maggiormente cresciute e che hanno garantito standard di vita migliori, sono state quelle di Paesi che più di altri hanno attinto ai migranti: Francia, Germania, Belgio e Svizzera. Non è un caso che il Regno Unito, o gli Stati Uniti se rivolgessimo lo sguardo altrove, abbiano sofferto di più fino a ridosso degli anni Ottanta. E non è un caso che il Paese per eccellenza dell’immigrazione del secondo dopoguerra, la Svizzera – che ha avuto il tasso d’incidenza del fenomeno più alto al mondo –, oggi sia il paese più giovane delle principali economie europee, con gli standard di vita più alti del resto d’Europa. Questo sarebbe un vero piano shock per l’economia, ma per fare questo, forse prima dovremmo affrontare e interrogarci sull’«ambigua debolezza dell’Europa».

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