Sono certe parole a essere volgari o le intenzioni cattive?

Sofismi politicamente corretti e perfide intenzioni moralmente scorrette

Di Alessandro Sandrini

Dopo la polemica tra i Maneskin e i Cugini di campagna, che ha rinverdito gli antichi fasti delle epiche sfide canzonettare tra Gianni Morandi e Claudio Villa, Gigliola Cinquetti e Patty Pravo, rimbomba ancora il boato seguito all’annuncio della Presidente del Senato che decretava l’affossamento della legge Zan. Questo è uno dei tristi esantemi del livello infimo cui è giunta quella che dovrebbe essere la politica, ma che in Italia non si sa più che cosa sia. Io almeno non lo so. Per adeguarmi al livello verbale (e morale) di molti che ci rappresentano (e chissà che tale adeguamento non mi porti fortuna), pare che si possa continuare a dare del “finocchio” a chiunque, senza che ciò possa assomigliare a un reato.

Non che la questione mi appassioni, tanto più che sono giunto ad un’età in cui si ha la tendenza più ad osservare i lavori in corso dando consigli a chi lavora, che a preoccuparsi dei generi sessuali di qualcuno.

Confesso che non ho approfondito adeguatamente il testo del DDL Zan, e vagamente conosco le ragioni di chi lo voleva promuovere e di chi invece l’ha voluto affossare. Fermo restando che sono contro ogni genere di discriminazione, devo dire che alcuni articoli del detto DDL mi sono formalmente oscuri. Forse (è problema di tutti i legislatori) si dovrebbe utilizzare una lingua più chiara e meno cervellotica. Mi dichiaro favorevole alla paratassi e (in certi casi) discrimino l’ipotassi.

Insomma, dare a qualcuno del finocchio (o del frocio, del culattone ecc…) non è reato.

Qualche giorno dopo ho assistito ad una intervista condotta da una nota giornalista e conduttrice ad un noto politico: questo lamentava di essere stato falsamente definito “omosessuale”. Al ché l’algida e maliziosa giornalista contestava che il termine “omosessuale” non è un’offesa.

La questione potrebbe rientrare nella sofistica. Se a qualcuno viene dato del “finocchio”, interpretando il ghigno della nota giornalista, questo non deve sentirsi offeso, sarebbe come dargli della “melanzana” o della “pera cotta”, epiteti ortofrutticoli che non hanno niente di offensivo verso colui che così viene apostrofato.

Sarei curioso di assistere ad un dibattimento processuale in merito, ma forse sarebbe meglio prendere la cosa come spunto per un film d’altri tempi, sul genere de “Il processo di Frine” di Alessandro Blasetti del 1952, con l’immenso Vittorio De Sica e la maggiorata Gina Lollobrigida. La Gina ha ammazzato il marito e Vittorio è il suo avvocato d’ufficio. In dibattimento la condanna pare pressoché certa, ma il colto ed istrionico avvocato difensore paragona la bellezza assassina di Gina a quella del Vesuvio: se dunque non si può incarcerare il vulcano, i giudici non possono nemmeno condannare la bersagliera nazionale. Il ragionamento fila.

La faccenda, però, suggerisce qualche riflessione.

In un articolo tra il serio e il faceto dell’aprile 1998 su L’Espresso, Enzo Biagi sosteneva che se dovessimo prendere alla lettera l’espressione “testa di c….o”, tutto si può dire fuor che sia da considerarsi offensiva, “perché l’aggeggio è intelligentissimo, sa quello che vuole, si impegna quando gli pare e, tutto sommato, se la spassa”. Tralascio il resto.

Chi conosce lo stile o, meglio, gli stili di Biagi, sa che ci sono vari registri ed è evidente che quello dell’articolo suddetto va considerato più un esercizio, un divertissement che una tesi a favore del turpiloquio.

Quante altre parole cosiddette volgari hanno in realtà un significato originario che niente ha a che fare con la volgarità comunemente intesa? E viceversa.

Personalmente mi sono sentito più offeso da qualcuno che, declamando qualche citazione latina, ha la segreta intenzione di danneggiarmi, che da un qualsiasi barrocciaio che mi manda a quel paese perché non gli ho dato la precedenza.

Il fatto è che non esistono parole volgari, ma solo intenzioni e azioni cattive, la determinata volontà di fare del male, spesso turpemente camuffata da una affettata e ipocrita buona educazione. Questo genere di personaggi il Minosse di Dante li scaraventa nel più profondo dell’Inferno.

Qualche giorno fa l’ex ministro Spadafora ha fatto un cosiddetto coming out: ha confessato in televisione di essere omosessuale.

Si discute da anni se il privato debba essere anche politico, soprattutto per chi riveste un ruolo pubblico. Spadafora non ha dubbi: questo per lui è stato un modo per testimoniare il suo impegno politico, anche come cattolico.

In politica – dice Spadafora – l’omosessualità viene usata anche per ferire, per colpire l’avversario, con un brusio che io stasera volevo spegnere. Spero di essere considerato per quel che faccio, per quel che sono, e da domani forse sarò più felice perché mi sentirò più libero“. Alla faccia di chi, in Parlamento, ama addentare fette di mortadella e agita nodi scorsoi.

All’algida e maliziosa giornalista consiglierei di rivedersi il finale di “A qualcuno piace caldo” del 1959 del geniale Billy Wilder: il miliardario Osgood col suo motoscafo sta portando in salvo Zucchero (Marylin Monroe), Josephine (Tony Curtis) e Daphne (Jack Lemmon). Mentre Josephine confessa a Zucchero di essere un uomo bugiardo e senza un dollaro, togliendosi la parrucca, Daphne, a Osgood che vuole sposarla/o, confessa: “Ma non capisci proprio niente! Sono un uomo!”.

E lui: “Beh… Nessuno è perfetto”.

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