19 marzo: padri, figlie e figli

A pochi giorni dalla giornata internazionale dedicata alla donna, ci troviamo a celebrare la Festa del Papà, o del babbo, come si usa nelle mie contrade. La data è variabile, ma nei paesi di tradizione cattolica la data fissa del 19 marzo è legata alla festa di San Giuseppe, il padre putativo di Gesù.  Di lui i Vangeli ci danno scarne notizie: Luca e Matteo affermano che era discendente di David. Quando Maria concepì Gesù, Giuseppe fu colto dal dubbio su come comportarsi di fronte a quella gravidanza miracolosa, sapendo che Maria avrebbe corso il rischio della lapidazione. Ma un angelo gli apparve e gli disse: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”.

La scelta di obbedienza a Dio da parte di Giuseppe fu valorizzata nel medioevo quando i religiosi delle chiese d’Oriente istituirono la festa del 19 marzo (data presunta della morte di Giuseppe); essa fu poi inserita nel 1479 nel calendario romano da papa Sisto IV.

Nel 1870 San Giuseppe fu nominato Patrono della Chiesa universale e nel 1889 Patrono dei padri di famiglia e dei lavoratori. Cominciò anche la tradizione secondo la quale i figli fabbricano dei piccoli doni da regalare al padre.

Nel 1955 fu istituita l’altra festa cattolica di San Giuseppe Artigiano il 1° maggio, in contrapposizione alla Festa dei Lavoratori socialisti e miscredenti.

È usanza che il 19 marzo si mangino le zeppole, i bignè e le frittelle di San Giuseppe, tradizione legata alla fuga in Egitto, quando Giuseppe dovette vendere frittelle per sostentare la famiglia, mentre quella di accendere dei falò rimanda ai Liberalia, riti di purificazione agraria che nell’antica Roma si celebravano alla fine dell’inverno, il 17 marzo, occasione per ubriacarsi ed eccedere in altri modi.

Insomma, tutto questo ci induce a pensare che la figura paterna che emerge è quella di un padre paziente e lavoratore, obbediente alla volontà di Dio. Essa contrasta grandemente con quella cui siamo abituati e che è oggetto di continue analisi e riflessioni. Da sempre.

Ci interroghiamo su quale sia la natura del rapporto tra padre e figli, e oggi, su come sia cambiato il ruolo del padre rispetto al passato.

Ovviamente non si tratta di una filiazione puramente biologica, ma di una relazione complessa e variabile a seconda dei modelli culturali delle società in cui viene a crearsi.

I sentimenti e le mappe emotive, che sono poi le coordinate fondamentali su cui ciascuno di noi si muove durante la sua vita, non si trasmettono geneticamente, ma si apprendono culturalmente. Non è semplicemente una trasmissione di valori, perché essi sono solo dei coefficienti sociali con i quali una società cerca di vivere nel modo meno conflittuale possibile, soprattutto quando essa diventa multiculturale e diversificata, senza contare l’esponenziale proliferazione dei media che moltiplicano, anche virtualmente, questa multiculturalità.

La curiosità, l’immaginare i sentimenti e le emozioni degli altri, la compassion inglese, la lettura come scoperta di altri mondi, sono il paradigma per mettere in relazione se stessi con gli altri, e costruirsi. È forse questo l’esempio paterno. Ma noi padri non abbiamo tempo, e forse nemmeno la capacità di esplorare questi nuovi mondi.

Qualche anno fa Michele Serra pubblicò un libro dal titolo Gli sdraiati dove il padre protagonista si interrogava sull’intima natura del figlio: lo vedeva dormire quando lui era sveglio, o svaccato sul divano che guarda la tv, il cellulare e il computer contemporaneamente; ne percepiva l’estraneità, ne sentiva la conflittualità, rammaricandosi di occasioni perdute che aumentavano il senso di colpa da una parte e, dall’altra, un’ostilità che nessun discorso paterno riusciva a mitigare. Una passeggiata in montagna rivelerà al protagonista che il figlio è già più avanti, più in alto di lui, senza che se ne sia accorto.

Forse, come suggerisce Umberto Galimberti, noi padri dobbiamo essere testimoni dei nostri figli, dobbiamo osservarli, perché chi si sente osservato si sente anche amato. “Il massimo del dolore – dice Galimberti – è la perdita del testimone: abbiamo bisogno di essere guardati, ciascuno di noi… I cattolici sono fortunati, hanno l’occhio di Dio che li guarda, e se pur qualche volta Egli è terribile, almeno non si sentono soli e abbandonati”.
Guardare nostra figlia o nostro figlio che ci fa il primo sorriso, è il primo processo di socializzazione: fin dai primi mesi di vita viviamo se c’è qualcuno che ci guarda e ci gratifica con uno sguardo.
Non è facile come sembra. Ma ci proviamo.
Buon San Giuseppe a tutti i babbi.

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