Ogni partenza è una vita daccapo

Paolo Rumiz è narratore straordinario delle storie incontrate lungo i viaggi che l’hanno portato – e lo portano ancora – lungo sentieri spesso inesplorati di questa Europa, terra  che porta in sé il nome di un mito lontano che prova a far riapparire attraverso luoghi e umanità. Il viaggio è la dimensione più radicata forse dentro di te, puoi spiegarcelo?

Il viaggio è fatto non solo di luoghi ma soprattutto di incontri, che rendono unica ogni trasferta. I paesaggi possono essere raccontati descrivendone le caratteristiche con le sole varianti delle condizioni metereologiche o dell’avvicendarsi delle stagioni, ma ciò che rende irripetibile il viaggio è l’umanità in cui ci si imbatte. Non è importante il numero di chilometri attraversati, la strada in questo senso è da sé una grande narratrice di storie; se tu passassi del tempo immobile davanti alla porta di casa saresti già un viaggiatore, vedendo la vita che scorre davanti ma sapendo ascoltare e guardare. Il viaggiatore è un collezionista di storie attraverso le quali conosce se stesso. Pensa che un geografo dell’antica Venezia del cinquecento, Giovanni Battista Ramusio, ha scritto il primo trattato geografico dell’età moderna – con più di cinquanta memoriali di viaggi e di esplorazioni narrate in modo straordinario – senza essersi mai spostato dalla sua città, ascoltando le storie di tutti coloro che approdavano nella laguna. Lo immagino un po’ come il mio destino, quando solo ascoltando le storie degli altri potrò viaggiare.

Il tuo modo di raccontare, sia sulla carta che con la tua voce, ricorda quello degli antichi aedi, dei cantastorie. “La cotogna di Istambul”, poema in versi che canta una meravigliosa storia d’amore, l’hai ripubblicato anni dopo la sua prima edizione in un “canto nuovo”: è stato un modo di liberare la poesia dalla scrittura?   

Il dato fondamentale della narrazione è l’oralità, proprio nella tradizione degli antichi aedi; questo la rende irripetibile, esattamente come il teatro diverso a ogni rappresentazione a seconda del rapporto che si instaura col pubblico; così il narratore, a seconda del clima che si crea con chi ascolta, può scatenare il demone giusto. E’ quel che è sempre accaduto con fiabe e leggende, che a seconda dei desideri degli ascoltatori che il narratore intuiva, andavano perfezionandosi col racconto, si arricchivano delle metafore più calzanti, di dettagli più affascinanti. La forza della scrittura è di essere orale anche quando è partorita in silenzio su un foglio bianco. Ecco, per me la scrittura è un tentativo di riprodurre la voce che racconta: la cotogna di istanbul ha voluto nella sua doppia pubblicazione dare il senso di questa mutevolezza nel narrare una stessa storia

Molti dei tuoi viaggi hanno ripercorso – e spesso fatte riaffiorare – strade tracciate dall’uomo secoli, se non millenni fa, come in “Appia” o “Annibale”. Viaggi nel tempo per arrivare dove? 

Solo in apparenza sono delle ricostruzioni storiche; in realtà sono dei viaggi iniziati da infinite letture dalle fonti antiche e condotti poi, a piedi, in bicicletta o per mare, come un desiderio di riconnessione con il mito che esse rappresentano. Un modo per cercare di comprendere oggi cosa queste strade abbiano ancora da dire, quale forza esse abbiano di ripetere se stesse a distanza di secoli e millenni, di richiamare in vita luoghi persone, storie. Quel che cerco di trovare in quei viaggi e poi di raccontare è il corto circuito, la interconnessione tra il cammino del presente e il mito nascosto nella storia.

La tua città è Trieste, terra e mare di confini, oltretutto tanto travagliati storicamente. Quanto ha significato in te nascere e appartenere a questo luogo?

Sono nato nella notte in cui la frontiera è stata fissata intorno a Trieste e questo marchio è forse rimasto impresso sempre su di me. Quando ero bambino la Jugoslavia era l’altrove inquietante per i miei genitori – che avevano vissuto la guerra- e per me il fascino di un mondo misterioso che si apriva dopo una linea a dieci chilometri dalla mia casa. La mia esplorazione dell’”Oriente” realizzata in viaggi straordinari è cominciata dall’immaginario intorno a quel mondo così a due passi da me, oltre quella linea.  E questo è rimasto il senso di frontiera che in fondo è stata la molla di tanti miei viaggi; frontiera non in senso sovranistico, come il muro che ci protegge dal barbaro, ma quasi il garante di una biodiversità tra europei, tra luoghi, tra storie. Con Schengen e l’abbattimento delle frontiere, se per un verso è diventato più semplice andare da un paese all’altro, è però venuto meno quel fascino di dover smantellare i confini, chiedersi e scoprire cosa vi fosse oltre; come fosse venuto un po’ meno il gusto di conquistare la meta dove non ci sono ostacoli.

Il nostro premier ha invitato a riscoprire l’Italia e le nostre bellezze per le prossime vacanze, un modo per arginare i contatti con l’estero e il virus ma anche per risollevare un’economia nazionale in crisi profonda: pensi da questa vicenda possa nascere un nuovo modo di considerare il viaggio?

Guarda, i cambiamenti imposti dalle necessità possono rivelarsi davvero occasione di riconsiderare standard consolidati; in un momento in cui le navi da crociera sono state adattate a diventare lazzaretti e gli alberghi in luoghi da quarantena, tutto sembra spingere a spostarsi in territori marginali, dove la socialità si realizza a piccoli gruppi. Vedo – e ne sono contento- moltiplicarsi il numero di chi parte in bicicletta o addirittura a piedi; è un meccanismo che mi piacerebbe portasse a un riappropriarsi degli italiani di luoghi e territori che sono stati drammaticamente trascurati e svuotati. Mi riferisco al nostro Appennino, alla nostra montagna italiana che, sferzata da terremoti o calamità, è stata lasciata drammaticamente sola e sta subendo uno svuotamento che oggi la vede sempre più svenduta e alla mercè degli acquisti stranieri. Il nostro entroterra appenninico è la nostra Africa che viene abbandonata dalla sua gente, i paesi che erano perle e mete di turisti e viaggiatori vanno perdendo i giovani che si spostano nelle città sulla costa o ancora più lontano. E’ come assistere a un tacito accordo per svuotare la montagna italiana, impedirne il ripopolamento e svenderla, uccidendo la speranza della parte più autentica della nostra penisola.

Dalla esperienza recente del lock down è nato un diario – in parte condiviso con i lettori di Repubblica- e poi pubblicato con il titolo “Il veliero sul tetto”. Vuoi parlarcene?

Beh, abbiamo detto all’inizio della conversazione che si può esser viaggiatori senza muoversi dalla propria terra: ecco, ne è stata dimostrazione questa quarantena, attraverso la quale mi sono trovato a esplorare tutti i possibili spazi che le prescrizioni anti – covid mi consentivano. Ho misurato e ridefinito gli spazi della mia casa ricercando confini che hanno finito per impreziosire e dare un senso nuovo a ciascuna stanza. Ho scoperto la possibilità di guardarmi intorno in modo nuovo dal tetto della mia casa e realizzare che mezzo mondo era già da lì, dalle Alpi al Mare. E ho ridefinito anche il mio tempo: compartimentando le ore della giornata, destinando a momenti diversi in modo puntuale le mie attività, forse è stato come trovare la chiave per dilatarlo. E così c’è stato ogni giorno il tempo di raccontare le fiabe ai miei nipotini, cucinare, leggere, scrivere, davvero più di quanto sarebbe accaduto in tempi “normali”.

Una delle ultime esperienze di viaggio – raccontata ne “Il filo infinito” – si è snodata tra i Monasteri benedettini di tutta Europa. Pensi che la solitudine , il silenzio, l’operosità di quei luoghi abbiano influito in questo tuo modo sereno di vivere il lock down, quello che si percepisce dalla lettura del tuo diario?

Certo che sì.  E’ nei monasteri che ho percepito davvero la prima volta cosa significhi scandire la giornata in tempi delimitati ma anche il valore di unire l’operosità alla meditazione. Il mio è stato un pregare in senso laico che significa meditare, riflettere; ho letto tanto, la mia semplice biblioteca di casa è stata una fonte straordinaria di memorie; e, come tanti, mi sono dedicato alla cucina, anche con la preparazione antica del pane. Ho vissuto una connessione straordinaria tra manualità e spiritualità, Nuotoliniai anglų kalbos kursai internetu | INTELLECTUS anglų kalbos mokykla Tra l’altro le idee più belle di scrittura mi affioravano cucinando e scrivendo immaginavo quale ricetta nuova avrei potuto sperimentare. In tutto questo ho cercato di mantenere un atteggiamento lieto e il più sereno possibile, quasi con il compito di trasmetterlo, renderlo virale attraverso la mia scrittura per portare ai reclusi della quarantena il senso di un atteggiamento sereno. Ecco, ho avuto il desiderio di “viralizzare la letizia”, sapendo che ce n’era un gran bisogno.

Un viaggio condiviso è stato condotto da te per alcuni anni in giro per l’ Italia con il progetto “tamburi di pace” ideato dal Maestro Igor Coretti e un’orchestra composta da ottanta ragazzi provenienti dai conservatori di tutta Europa: la musica e il racconto per incastonare negli animi il senso di pace. Cosa significa per te far parte di questa avventura, sospesa purtroppo in era COVID?

Significa assistere a miracoli in sequenza, a partire da quando realizziamo le selezioni dei ragazzi che svelano la forza della diversità nazionale e etica dell’Europa, ragazzi che vediamo diventare team nel giro di un nanosecondo e quindi assistere alla meraviglia di tante voci singole che diventano sinfonia dando vita alla perfetta metafora di quel che io vorrei fosse l’Europa: non un apparato centralistico ma una federazione di diversità. Un altro miracolo è la performance in sé, vedere come questa musica abbinata alle mie modeste parole provoca un’onda emozionale nel pubblico che nessun comizio, nessun libro di storia, nessun testo sacro può dare, Dopo aver assistito a un tale spettacolo non puoi non dirti europeo e guardando la bellezza e bravura di questi giovanissimi la gente torna a casa migliore: è una trasfigurazione generale straordinaria.

Altro miracolo è nello stupore e nella meraviglia di questi ragazzi stranieri di fronte alla diffusa e variegata bellezza d’Italia: non posso dimenticare che a Matera facevano fatica a fare le prove nella piazza nel cuore dei Sassi tanto erano sedotti da ciò che li circondava. Altro grande miracolo è il momento della separazione dopo l’ultimo concerto in cui questi ragazzi che condividono un magma unico di gioia dionisiaca e malinconia; dopo due mesi nei quali sono nate storie, amori, amicizie, tutti saranno legati per sempre da questa grande esperienza anche se non rivedranno mai più.  Resteranno per sempre i ragazzi dei concerti dei Tamburi di Pace.

L’ultimo miracolo è nel vedere ragazzi che arrivano in Italia ricchi delle loro diversità nazionali e tornano a casa arricchiti da una appartenenza europea che si aggiunge a quella loro nazionale senza nulla toglierle: ragazzi che arrivano ambasciatori del loro Paese e tornano a casa ambasciatori d’Europa.

Uno dei tuoi figli abita a Zurigo, dunque la Svizzera è una frontiera che attraversi spesso e che ha mantenuto quei confini che il resto dei paesi europei ha eliminato. Che rapporto hai con questo Paese?

Intanto il forte legame a una appartenenza che non si identifica in una sola lingua o razza ma in un modo confederale di vedere lo Stato; un paese che ha pochissima burocrazia ma ha tantissimo controllo dal basso, dove le piccole comunità sono ancora griglie fondamentali per il funzionamento della democrazia. Ovviamente vi sono legato per il fatto che è il luogo da cui partono alcuni dei principali fiumi d’Europa: il Reno, il Rodano e affluenti del Danubio; è il luogo che i francesi chiamerebbero “chateau d’ eau”, il cuore delle acque d’Europa lontano dal Mare in un continente che il mare lo ha un po’ dappertutto. E poi perché è il luogo dove il mio nipotino ha imparato la sua seconda lingua ma anche un modo di vivere secondo regole condivise, che è un po’ quello che manca al mio paese. Se attraverso con il rosso a un semaforo deserto lui mi rimprovera perché ha imparato l’educazione stradale a tre anni. Non può non abitare in Svizzera una parte della mia anima.

Ringrazio Rumiz e me ne congedo con il solito rammarico; l’ho conosciuto quando venne a Matera a presentare “Appia” e nella condivisione della straordinaria esperienza nella tappa finale del tour di Tamburi di Pace nel 2017. Ascoltarlo raccontare ha qualcosa che va molto al di là della modulazione o dei toni della voce perché non c’è storia, non c’è episodio anche apparentemente banale da lui narrato che non gli abbia attraversato l’anima. Ricordo che nel raccontarmi delle meravigliose fioriture nella piana di Castelluccio in Umbria ferito dal sisma aveva incontrato un uomo “che aveva tutta la vita” nel trolley che portava con sé. Ecco cosa mi ha insegnato: ognuno è portatore di un universo degno di essere raccontato e rammentato. E che nella comunicazione tra esseri umani vi è la sola strada per costruire una società migliore. I viaggi di Rumiz hanno visto le macerie di tante guerre, ma proseguono senza stanchezza perché cercano di seminare quel senso della pace che solo dal dialogo tra genti lontane può avere origine.

 

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