Ferré e Maria Vittoria Alfonsi

L’architetto stilista e la giornalista con i pantaloni

Il libro

Lo stilista. “Il VERO architetto della moda”, innamorato del monocolore, tutt’al più per il bicolore. “Il tutto-bianco, il tutto-nero, il bianco-beige, il bianco nero”. Ma anche l’uomo dedito all’insegnamento, amante dell’arte e della cucina, sensibile e colto, amico degli artisti, sempre in viaggio, eppure attaccato alla “sua” casa a Legnano. Impegnato nell’alta moda e prêt-à-porter. È questo il ritratto di Gianfranco Ferré che Maria Vittoria Alfonsi ci offre nel libro edito da Baldini e Castoldi, “Gianfranco Ferré, l’architetto stilista”.

Le pagine scritte da Maria Vittoria Alfonsi ripercorrono la giovinezza dello stilista, nato nel pieno del secondo conflitto mondiale, il giorno di ferragosto del 1944, e cresciuto in una famiglia tradizionale della solida e operosa borghesia lombarda; il suo interesse per la moda, emerso fin dagli studi in architettura; i viaggi in India; i debutti alle sfilate dell’alta moda, a Roma, Milano e Parigi, dove Ferré fu capace di dominare la scena “pur essendo straniero”; e lezioni nelle scuole di moda, la donazione che Ferré fece alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Milano.

Oltre a ripercorrere eventi che hanno segnato la vita pubblica e il successo di Ferré, “Gianfranco Ferré, l’architetto stilista” è una raccolta dei ricordi intimi e preziosi dell’autrice stessa e di quanti furono più vicini al Maestro “falsamente burbero”: da Rita Airaghi – cugina del Maestro, ma soprattutto suo fidato “braccio destro” e attuale direttrice della Fondazione Ferré – ai collaboratori dello stilista, Giorgio Re e Silvia Gavina, agli amici cari.

Vivida è la memoria di Maria Vittoria dell’incontro con Gianfranco Ferré, nel marzo del 1986, nella sua sede a Milano, nel triangolo della moda. “Tutto è nero”, scrive Maria Vittoria, anche la ragazza che accoglie la giornalista prima dell’incontro con lo stilista: “capelli, occhi e occhiali neri, cappotto nero, cravatta, calze, scarpe, cinturino dell’orologio e orologio neri”. Commovente è il ricordo dei “suoi ragazzi” nel giorno del funerale del Maestro: “Lei, genio indiscusso delle forme, era in verità un uomo di sostanza, che teneva nascosta dietro una scorza spesso di ruvidità e di ritrosia – diciamolo pure, di timidezza”. Le parole di Paola Pollo, invece, ci restituiscono l’immagine di un uomo che era, anche, molto vanitoso. D’altra parte, lo stesso Ferré, come ricorda Maria Vittoria, asseriva che si dovesse cercare equilibrio tra l’approccio cerebrale – il processo ragionato e pianificato del percorso creativo – e l’approccio emozionale – l’abito come risultato di un’intenzione di pura fantasia. E fu proprio questo equilibrio che, come viene ricordato nel libro, contribuirà a sostenere la candidatura di Milano come sede dell’Expo 2015. L’amore di Gianfranco Ferré per la casa della propria giovinezza trova forma nelle parole del fratello, Alberto, mentre è la cugina a sottolineare l’amore dello stilista per il Rinascimento, dal quale “rubava certi colori: dal Canova il bianco sublimato, quasi diafano, la profondità dei rossi, fino alla porpora, l’oro e il blu da Tiziano, da Paolo Caliari, detto il Veronese, certe sfumature che riusciva a ottenere solo con broccati dipinti e tessuti a mano”.

Il libro, oltre a giostrare abilmente voci e toni, include anche le foto della vita dello stilista e delle sue creazioni più belle, bozzetti degli abiti e immagini delle sfilate. L’ultima parte del lavoro di Maria Vittoria Alfonsi è dedicato alla Fondazione Gianfranco Ferré, le sue attività e obiettivi.

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Il ritratto

Maria Vittoria Alfonsi, è giornalista e scrittrice. Ha collaborato al Dizionario della Moda, curato da Guido Vergani e scritto per diverse importanti riviste di settore e quotidiani, pubblicando anche numerosi libri sul mondo della moda. Nel 2001 ha donato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma la sua raccolta che, attraverso abiti, giornali, riviste, libri, fotografie e video, racconta la moda del Novecento. Nel gennaio 2019 il quotidiano “L’Arena” di Verona ha consegnato a Maria Vittoria un riconoscimento per 60 anni di collaborazione ininterrotta nonché prima “penna rosa” con rubrica e inviato donna in un giornale veronese. Poche settimane fa, il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Veneto ha deciso di assegnare a Maria-Vittoria il Premio alla Carriera 2020, riconoscimento che ogni anno viene attribuito ad un collega che si sia particolarmente distinto nell’esercizio della professione.

Un premio, quello alla Carriera 2020, che Maria-Vittoria non si aspettava ma l’ha riempita di “sorpresa, stupore e gioia”, come lei stessa afferma. L’amore per le parole accompagna Maria Vittoria da sempre. E l’interesse per la scrittura prende forma e forza quando il papà le permise di usare la macchina da scrivere. Aveva sette anni.

In una chiacchierata telefonica che feci con Maria-Vittoria alcuni mesi fa, mi soprese la naturalezza con la quale mi raccontava di come, negli anni, cercò di conciliare la maternità e la carriera, e le sfide con le quali era confrontata giornalmente per essere presente a casa così come “là dove tutto accadeva” – dove quel “là” era il suo ufficio, una sfilata o un’intervista a un personaggio importante. Oggi le cose sono cambiate, nel mondo giornalistico – e io mi sento una privilegiata: mi trovo a raccontare di Maria Vittoria seduta alla scrivania di casa. D’altra parte, e più in generale, lo scoop, la notizia, si fa ormai “sul” computer e “con” Internet, quale strumento per corroborare informazioni. Senza spostarsi, senza incontrare le persone, senza vedere volti e stringere mani (e non solo per le restrizioni imposte dalla pandemia di Coronavirus). In parte a venir snaturata è la missione stessa della carta stampata, come ricorda Maria-Vittoria:

“Premettendo che vi può essere grande differenza fra il giornalismo dei quotidiani e quelli dei periodici, in quest’epoca in cui le fake-news, le “bufale”, l’eccesso voluto, la ‘balla studiata’, le esagerazioni e false interpretazioni dilagano, la carta stampata dovrebbe, per quanto possibile e come sempre, ‘stare sul campo’, controllare e approfondire le notizie alla fonte prima di diffonderle. Oggi, come doveva essere ieri e come dovrebbe essere domani, la mia osservazione è una – banalissima, forse, ma essenziale: non fidarsi del sentito dire e dei social. Ed evitare invenzioni-esagerazioni per ‘farsi belli’.”

“Quando cominciai – continua Alfonsi – non esisteva nemmeno il fax. I pezzi si scrivevano con l’amatissima Olivetti 22 che ci seguiva ovunque: in treno, in aereo, nelle stanze d’albergo (in tal caso, il pezzo si telefonava, sperando di trovare le linee libere e non disturbate, oppure si portava – di corsa – all’agenzia stampa che li spediva ai giornali). Se eravamo in sede, il pezzo veniva preso dal fattorino che lo portava in tipografia. Poi arrivò il fax e dopo alcuni anni il computer: la vita cambiò, ed anche il nostro lavoro. Oggi, possiamo sentire Ilaria Capua da New York, o Carlo Rovelli dal Canada. Senza parlare del telefono cellulare, che cambiò profondamente anche il nostro lavoro. Era  il 26 gennaio del 1985; mi trovavo a Milano per una colazione di lavoro al ‘Principe di Savoia’. Alla mia sinistra era seduto Brazzi, direttore dell’Ansa. A metà pranzo sentii uno strano rumore, uno squillo ovattato. Brazzi tolse da una tasca interna della giacca un aggeggio scuro, se lo portò all’orecchio. Si alzò di scatto e disse: ‘scusate, devo scappare, hanno liberato il generale Dozier’. Per la prima volta avevo visto il telefono cellulare: fu amore a prima vista. Arrivò poi il computer, il Web e più tardi i Social. Di enorme aiuto: ma i giovani giornalisti o aspiranti tali d’oggi hanno perso molto. Fanno meno fatica ma non conoscono il fascino del vero giornalismo, che viene anche dal ‘darsi’  a questo ‘dannato-amato mestiere’.”

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