Il senso dei Sensi

I cinque sensi sono finestre d’accesso al mondo dalle quali riceviamo conoscenze diverse che dobbiamo integrare tra loro.

Fu la filosofia aristotelica a configurare i cinque sensi come modi distinti di percepire la realtà esteriore. Questi venivano classificati gerarchicamente in vista, udito, olfatto, gusto e tatto.

L’idea che i sensi si trovassero alla base della conoscenza intellettuale e fisica, oltre che presso tutti gli autori antichi, venne accolta anche dalla religione cristiana medioevale, che tuttavia li considerava sia preziosi strumenti del sapere, sia diaboliche armi di tentazione al peccato.

La civiltà occidentale contemporanea ha privilegiato i sensi vista e udito per trascurare, diversamente dalle società orientali, olfatto, gusto e tatto.

I sensi umani ci mettono in rapporto con la realtà in maniera differenziata. Ogni senso ci permette un tipo di conoscenza diversa.

Noi incameriamo conoscenze sensibili, ma anche pensieri e li accumuliamo in noi come lastre fotografiche non sviluppate, da sviluppare poi mediante l’intelligenza.

Nel nostro modo di stare nel mondo forse dovremo aprire di più gli occhi, le orecchie, quasi tutti i pori del corpo e sostanzialmente avere un’esistenza più ricca, probabilmente più sensata in quanto ci rendiamo conto di più cose, esercitando questi sensi, soprattutto quelli che nella nostra tradizione sono stati più trascurati. Solitamente conosciamo i cinque sensi come sensi classici. In realtà esistono tanti sensi, come quello dell’equilibrio o del calore corporeo, che potrebbero, a buon diritto, diventare il settimo, l’ottavo o il nono senso.

Il sesto senso, tra l’altro in origine “il senso comune”, aveva un significato diverso da quello che intendiamo oggi: era quel miscelatore dei cinque sensi, che faceva sì che un’arancia fosse un oggetto con un odore, con un sapore, con un colore, una forma e così via. Pitagora ha reso traducibili alcuni sensi, la vista e l’udito, in termini di concetti e ha reso i concetti traducibili in termini di vista e di udito. Attraverso una costruzione geometrica di due triangoli, con delle bisettrici opportune, si riesce a stabilire la lunghezza di quelle corde, poniamo di lira o di chitarra, che noi chiamiamo oggi «do, mi, la».

Pitagora ha trasformato ciò che è intellegibile in ciò che è visibile e ciò che è visibile lo ha reso intellegibile. C’è una traducibilità reciproca. Ha trasformato ciò che è visibile in ciò che è udibile, perché la musica è fatta di proporzioni ed è sostanzialmente sempre stata considerata un’applicazione della matematica. Sempre per Pitagora, ciò che è vero è anche bello, perché l’idea di bellezza presuppone per lui l’idea di proporzione, l’idea di ordine, l’idea di armonia.

Per un tempo lunghissimo si sono combattute due teorie: la prima secondo la quale tutte le nostre esperienze, tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi, la seconda invece per cui la mente o il pensiero o le idee hanno una loro autonomia che va avanti, a prescindere dai sensi. Per cui c’è una tradizione molto antica in base alla quale tutte le nostre conoscenze sono originate dalla elaborazione dei materiali che ci forniscono i sensi. Questi materiali continuano ad agire in noi, a restare impressi nella memoria, come quando, pizzicando una corda di chitarra, anche dopo che si è finito di toccare la chitarra, la corda continua a vibrare. Quindi si passa dai sensi alla memoria, che conserverebbe le tracce dei sensi.  Poi ci sarebbe un’altra facoltà: l’immaginazione, che manipola i dati sensibili, li mette insieme, e alla fine ci sarebbe l’intelletto che produce non più elementi concreti, ma produce entità astratte, quelle che noi chiamiamo appunto idee.

Ma oltre a questi sensi potremo parlare anche di altri sensi come il senso della giustizia, il senso dell’appartenenza, il sesto senso, il senso della misura, il senso della vita, ecc., in questi casi quale significato diamo alla parola senso?

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