Il terrorismo è l’arma dei deboli

di Amedeo Gasparini

In foto: Osama bin Laden col suo consigliere Dr.Ayman al Zawahiri. Autore: Hamid Mir

Uno degli obiettivi delle organizzazioni terroristiche è quasi sempre quello di istigare la paura pubblica con una mossa-lampo che abbia grande eco mediatico. La massimizzazione dell’audience è parte integrante dell’atto terroristico: dopo la botta, il livido sulla pelle degli stati colpiti e disorientati. Il terrorista sa bene quanto sia importante la mediaticizzazione durante e, soprattutto, dopo l’attentato. Ed è questo uno dei motivi che lo spingono a perseguire il suo intento di promuovere una certa ideologia, politica o religiosa, talvolta fino alla morte. Nella Storia, i terroristi hanno usato sempre armi e motivazioni diverse per attaccare questo o quel segmento sociale, stato o civiltà. Hanno sempre contato sulla fase post-attentato come elemento di devastazione psicologica delle loro vittime. Il terrorismo è spesso di matrice politica o religiosa: si serve di questi elementi per giustificare l’uso della violenza.

E la violenza è l’arma dei deboli. Lo spiega bene Yuval Noah Harari (21 lezioni per il XXI secolo): il terrorismo è un’arma usata dai segmenti non solo marginali, ma anche deboli dell’umanità. I terroristi non hanno quasi mai a disposizione un equipaggiamento da esercito o tecniche militari avanzate – l’eccezione è forse quella a seguito del ritiro americano dall’Afghanistan concluso il 31 agosto scorso. Fanaticamente, offrono il bene più prezioso alla loro causa, cioè la propria vita – e non per forza devono uccidersi. Il terrorismo ha strategie militari poco efficaci, continua Harari: «lascia tutte le decisioni importanti nelle mani del nemico», sia in termini di prevenzione del terrorismo, che in termini di reazione nel breve termine rispetto ad attentati terroristici. I terroristi «optano per lo spettacolo teatrale […], non pensano come generali dell’esercito».

I talebani in divisa da marines rappresentano un’umiliazione tremenda che indebolisce l’immagine dell’Occidente nel complesso. Il verde militare sostituisce le lunghe palandrane chiare. Simbolicamente, in mano, tengono il mitragliatore, quasi fosse un trofeo di caccia. I terroristi lavorano molto sulla loro immagine e sull’immagine che danno di sé al mondo. Osama bin Laden lo sapeva bene: girano ancora i suoi video mentre di profilo spara nei deserti rocciosi. L’intento dei terroristi è sempre quello di farsi pubblicità, di rendere pubblica in maniera scioccante la loro causa, di lanciare un segnale di destabilizzazione nell’intento di rendere ancora più fragili i loro bersagli. Astutamente, il terrorista attende sempre la reazione. «Durante la tempesta, possono accadere molte cose impreviste. Si commettono errori e atrocità, l’opinione pubblica è sconvolta, la gente cambia idea, l’equilibrio del potere salta», scrive Harari.

Il panico dovuto alle azioni terroristiche è di varia natura. Da una parte c’è chi addita segmenti sociali e si dà alla sommaria caccia alle streghe per incrementare il proprio consenso politico. Dall’altra c’è chi nega il problema di una retorica aggressiva e pericolosa di certe comunità politiche o religiose. Scrive Federico Rampini (Il tradimento): «Il riflesso automatico di tante élite occidentali, che dopo ogni strage si affrettano a rassicurare le comunità islamiche – “voi non c’entrate niente, lo sappiamo” –, ha ritardato una presa di coscienza, un chiarimento, una dolorosa ma urgente opera di revisione dei valori e della visione del mondo in quelle comunità».

Nessuna delle due scuole offre risposte concrete agli effetti del terrorismo sulla società e gli approcci radicali o ingenui sono ben lontani da un’analisi completa degli avvenimenti. Le risposte sociali agli attacchi terroristici devono anche tenere conto del fascino che l’azione spettacolare del terrorista dovuta a motivi religiosi o politici può esercitare sulla popolazione. Si prenda il caso degli anni Settanta, quando in ogni paese c’erano gruppi terroristici di estrema sinistra: Brigate Rosse (Italia), Action directe (Francia), Cellule comuniste combattente (Belgio), Rote Armee Fraktion (Germania dell’Ovest), Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Colombia), Sendero Luminoso (Perù), Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (Nicaragua), Weather Underground (Stati Uniti), Fronte di Liberazione del Québec (Canada), Armata Rossa Giapponese (Giappone).

I gruppi terroristici a livello domestico possono esercitare fascino per alcuni, ma ancora, solo i più deboli scelgono la strada della violenza come codice di espansione del proprio messaggio politico o religioso. La deterrenza nel contrastare i gruppi terroristici interni oltre a quelli esterni provoca gravi problemi agli stati. A proposito del terrorismo rosso in Italia e in Germania, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Goodbye Europa) spiegarono che «per evitare che gli studenti degli operai cedessero alle lusinghe dell’estrema sinistra […] i governi continuarono a concedere loro ciò che chiedevano anche quando fu chiaro che non c’erano più le risorse. Negli anni Settanta si pagò il welfare state con l’inflazione negli anni Ottanta con il debito pubblico». I danni del terrorismo, domestico e internazionale, hanno sempre un alto prezzo, ma soprattutto, gli effetti sia della risposta che dell’evento in sé hanno ricadute nel lungo termine. Il terrorismo, continua Harari, «non preoccupava i nostri antenati medievali poiché erano pressati da problemi molto più seri. Durante l’era moderna gli Stati centralizzati hanno gradualmente ridotto il livello di violenza politica all’interno dei loro territori e negli ultimi decenni i paesi occidentali sono riusciti a sradicarla quasi del tutto […]. Di conseguenza, anche i reati di violenza politica che uccidono qualche dozzina di persone sono considerati una gravissima minaccia».
L’eccessiva mediaticizzazione degli eventi terroristici è un favore ai terroristi. Per quanto sia comprensiva l’emozione all’indomani dell’attentato terroristico le società colpite non devono auto-infragilirsi ulteriormente agli occhi dei terroristi e al contempo non devono far passare il messaggio che non seguiranno reazioni al riguardo. Sarebbe, di nuovo, una vittoria dei terroristi. Quei terroristi – sia a livello domestico che a livello internazionale – che offrono tutti se stessi nella causa in cui credono. Offrono i loro corpi. Il che da una parte è simbolo di grande coraggio (o forse incoscienza: sacrifico la cosa più preziosa che ho, la mia vita), dall’altro di grande debolezza (sacrifico la mia vita per la mia causa perché non voglio usare altri mezzi per affermare la mia visione). Usare il proprio corpo, seminare terrore, fare stragi di innocenti è un sintomo di debolezza.
Chi è forte crede nella sana persuasione, nel convincere, nel dialogo, nella forza di mettersi attorno ad un tavolo e discutere. Non si fa saltare in aria per volere di un grande Dio (quale Dio può desiderare la morte di qualcuno?), o del Partito (è un partito liberale o democratico quello che usa la “lotta continua” come strumento di azione?).

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami