La Cina dopo il Covid-19: grande potenza, o potenza grande?

di Filippo Costa Buranelli, Lecturer in Relazioni Internazionali presso l’Università di St. Andrews nel Regno Unito

L’inizio di questo 2020 è stato sicuramente contrassegnato da una crisi epidemiologica, quella del COVID-19, destinata ad avere profonde e durature ripercussioni in numerosi campi della nostra esistenza: dalla salute all’educazione, dall’economia allo sport, dalle interazioni sociali al turismo, dallo sviluppo sostenibile al lavoro.

Al tempo stesso, queste ripercussioni intaccano trasversalmente le relazioni internazionali nella loro dimensione, se vogliamo, 3D: nazionale, regionale, globale. Ed è particolarmente rispetto a quest’ultima, la dimensione globale, che numerosi analisti si stanno interrogando su come la presente situazione epidemica influenzerà l’ascesa della Cina come grande potenza all’interno del sistema internazionale.

Vediamo di contestualizzare la questione, e di collocare i recenti sviluppi in un quadro di analisi più ampio. Negli ultimi anni, la Cina ha rafforzato la sua posizione all’interno del consesso delle grandi potenze attraverso una pressoché costante crescita economica che ha contribuito a rendere il Partito Comunista Cinese (PCC) responsabile per quella che adesso è la seconda economia mondiale (e la prima per parità di potere d’acquisto). Questa crescita economica ha contribuito a creare una classe media che ha da un lato rafforzato l’economia cinese facendo crescere la domanda interna per investimenti e beni di lusso, dall’altro ha costituito la base per la formazione all’estero di un numero altissimo di studenti cinesi, che costituiscono il contingente più numeroso al mondo di studenti all’estero.

Inoltre, la Cina ha rafforzato la sua posizione militare al punto di essere l’esercito più numeroso al mondo, ha lanciato un’offensiva diplomatica, finanziaria, e infrastrutturale a livello genuinamente globale attraverso il programma Belt and Road, ha mostrato una crescente adesione alle norme ecologiche globali, e si è fatta promotrice di un rafforzamento, anche se a livello primariamente retorico e discorsivo, dei principii di sovranità, pluralismo culturale, eguaglianza delle nazioni, non-interferenza, e non-interventismo creando di fatto una contro-narrativa opposta a quella primariamente interventista-liberale supportata da molte potenze occidentali. Tutto questo sembrerebbe dunque indicare che la Cina sia ormai assunta al grado di grande potenza all’interno della società internazionale, o sia comunque seriamente candidata ad esserlo. Eppure, è così?

L’attuale crisi pandemica ha rivelato elementi che potrebbero intaccare la legittimità di questa percezione della Cina nel consesso internazionale.

Per giocare un po’ con la lingua italiana, una potenza grande non è necessariamente una grande potenza. Indicatori al rialzo e in costante crescita, trend economici positivi, massicci investimenti infrastrutturali, finanziari, e militari negli ultimi anni non corrispondono necessariamente allo status di grande potenza, se non accompagnati da un senso di obbligazione, di trasparenza, di volontà di affrontare le sfide globali in coordinazione con altri membri della società internazionale. Questa differenza è la stessa che intercorre fra primazia ed egemonia, che in greco antico vuol dire appunto ‘guida’, che è qualcosa di più pastorale e collegiale rispetto alla mera supremazia.

In particolare in una situazione come quella attuale, in cui il tempo e il dettaglio dell’informazione sulle origini della pandemia sono fattori fondamentali per consolidare gli sforzi della comunità epistemica globale e convogliare sforzi intellettuali, economici, e di laboratorio alla ricerca di misure per contrastare non solo il virus, ma una sua (non poi così impossibile) riproposizione in un futuro prossimo, la reticenza del PCC nel rivelare cosa è successo nei giorni fondamentali tra novembre 2019 e gennaio 2020 e la disponibilità a prestarsi a scambi di accuse con la Casa Bianca su chi ha ‘inventato’ il virus piuttosto che di impostare una strategia coordinata su come ricostruire la governance mondiale dopo la pandemia sono indice che la funzione di grande potenza e di ‘guida’ all’interno del sistema internazionale è ancora strettamente ancorata a logiche di potere interne – non allo stato cinese, ma al PCC stesso. Ne è purtroppo la prova la fine che hanno fatto Li Wenliang, Ai Fen, e Chen Qiushi, che hanno provato a documentare la portata distruttiva del virus e la malagestione del PCC sin dalle prime settimane di contagio.

Quando una via più autenticamente multilaterale è stata perseguita, è importante notare come la Cina abbia utilizzato le esistenti strutture multilaterali (come l’OMS) non per diramare informazioni e cercare una convergenza di azione basata su solidarietà, pragmatismo, urgenza, e cooperazione, ma principalmente per rafforzare la propria immagine di paese che ‘ce l’ha fatta’ – presentandosi al mondo come modello – e per soffocare la presenza fondamentale in termini scientifici ma scomoda geopoliticamente di Taiwan – un paese che, più di tutti, ha affrontato l’epidemia Covid-19 con successo tanto dal punto di vista strettamente medico quanto da quello più ampio di policy sociale. Chi ha provato a contraddire questa narrativa invocando una investigazione multilaterale, indipendente, ed imparziale sulle cause del virus, come l’Australia, ha ottenuto in cambio la minaccia, neanche troppo velata, di essere boicottato a livello commerciale.

Nonostante ci siano voci che pensano che la pandemia e il successo cinese nel contenerla potranno rafforzare l’idea di una Cina pronta, capace e generosa nel dispensare aiuti umanitari, medici, e scientifici a stati che ne necessitano, è dunque opportuno ricordare che per essere grande potenza occorre godere della legittimità di chi accetta di concedere, se così si può dire, la posizione di primus inter pares. Tale legittimità dipende anche, seppur non solo, da trasparenza, credibilità, e disponibilità al dialogo aperto. È dunque questa la strada percorsa?

La strategia attuata dalla Cina comprende due direttrici, accumunate da toni e narrative nazionalisti e trionfalistici.

Non proprio. La Cina sta infatti impostando la propria strategia su due direttrici, accumunate da toni e narrative nazionalisti e trionfalistici. La prima direttrice è la ‘politica della generosità’, come ha astutamente osservato l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, basata su fornitura di materiale sanitario protettivo (prezioso e utile, ancorché alle volte difettoso o scaduto), e conoscenza/personale medici a paesi terzi (spesso, tuttavia, senza previa consultazione). Questa politica della generosità ha fruttato, finora, un inatteso surplus commerciale di 45 miliardi di dollari, principalmente trainato proprio dall’export di materiale medico, come ha notato un recente rapporto dell’ISPI. Questo surplus è, al momento, di vitale importanza per Pechino specialmente se si tiene conto che, stando a recenti stime, la crescita economica cinese nel 2020 sarà intorno allo zero, la performance economica peggiore dalla Rivoluzione Culturale.

La seconda è la ‘politica del successo’ a livello domestico, deputata ad esaltare la vittoria sul virus, oggettivamente straordinaria nei numeri quanto nei mezzi adoperati, attraverso pubblicazioni come ‘La Via Cinese alla Guarigione’. Al tempo stesso, questa ‘politica del successo’ ha anche dovuto appoggiarsi alla soppressione di voci critiche di ricercatori e medici che hanno provato ad attirare l’attenzione della comunità (scientifica) internazionale sui rischi che la futura pandemia stava arrecando. La ‘politica del successo’ è anche sfociata in esempi di abusi razzisti nei confronti di cittadini africani nel sud del paese, che ha suscitato una veemente mobilitazione diplomatica nel continente africano, fino ad ora un partner entusiasta della Cina. Sentimenti, questi, diffusi tra le popolazioni di altre aree e stati strategici negli equilibri internazionali, come l’India, l’Iran, e l’Asia Centrale. Questo doppio binario, basato su presupposti di geopolitica più che di governance condivisa, come è stato notato sopra riguardo alla diplomazia cinese in ambito OMS, è stato conseguentemente abbinato ad un comportamento schivo all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui la Cina per tutto il mese di marzo, mese in cui deteneva la presidenza del Consiglio, non ha convocato neppure una sessione.

La pandemia mette in luce anche la carenza di leadership mondiale

Senza diminuire il fatto che l’attuale pandemia sia un problema primariamente medico e sanitario, è innegabile che è proprio in situazioni come queste che elementi di leadership, di ordine, di guida siano soggetti allo scrutinio di chi, in un futuro magari neanche troppo lontano, questa leadership dovrà seguirla. Proprio per questo motivo, è molto importante considerare che quanto sopra va letto in un quadro più ampio di carenza di leadership mondiale – gli Stati Uniti e altre supposte grande potenze, come Russia e Regno Unito, hanno commesso e continuano a commettere gravi errori e ritardi nel contenere il virus, spesso proprio attaccando la Cina per mascherare i propri fallimenti e la propria indolenza ed inerzia politica. Tuttavia, quanto sopra vuole essere una constatazione che, per passare da potenza grande a grande potenza, il passo non è poi così immediato, e che a grandi diritti corrispondono grandi doveri – anche di fronte a quella grande constituency che è la società internazionale. Che le grandi potenze utilizzino l’ordine mondiale a loro beneficio e tornaconto non deve sorprendere nessuno – la politica, specie quella internazionale, è prima interesse e poi altruismo. Ma meno ambiguità, meno opportunismo, e più considerazione della ‘ragion di sistema’ sono imprescindibili per unire leadership a legittimità.

Qualora la Cina decidesse di mettere il proprio successo autenticamente al servizio della società internazionale, per esempio accondiscendendo alla formazione di un pool di scienziati (di cui la Cina farebbe ovviamente parte) con l’obiettivo di chiarire le cause e le origini della pandemia, questo apporterebbe grandi benefici al resto del mondo sia in termini di conoscenza medica e virologica su come evitare future pandemie e magari anche contribuendo alla raccolta di dati necessari per trovare un vaccino, sia in termini di depurazione di un discorso pubblico ormai saturo di elementi cospirazionisti e complottisti, da cui ormai anche molti leader politici sembrano essere sedotti. Qualora invece questo non dovesse accadere, allora potremmo doverci preparare ad un tipo totalmente diverso di egemonia – sicuramente pragmatica ma anche autoritaria, e dunque diversa da ciò a cui l’Occidente è stato abituato. E, soprattutto, non per forza legata ad un più ampio ordine internazionale.


Filippo Costa Buranelli è Lecturer in Relazioni Internazionali presso l’Università di St. Andrews nel Regno Unito, dove si occupa di organizzazione internazionale, politica eurasiatica, teoria delle relazioni internazionali, e regionalismo. Le opinioni espresse sono a titolo personale, e non rappresentano quelle dell’universitá presso la quale lavora.

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