La scuola che non va, la meritocrazia e le élite

Di Amedeo Gasparini

Sono concorrenza e meritocrazia a ridurre le diseguaglianze nel ramo scolastico e a dare maggiori opportunità ai più svantaggiati. Il pensiero di Panebianco, Abravanel, Ricolfi e Harari.

Per fare fronte a un mondo che corre sempre di più, che premia la preparazione, che si nutre di economia della conoscenza, molti istituti scolastici continuano a ritenere che promuovere gli studenti a manica larga sia doveroso e in linea con i dettami della cosiddetta eguaglianza. Una logica di puro populismo scolastico, l’idea perversa – secondo Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 29 maggio 2020) – per cui il diritto allo studio è sinonimo di diritto al diploma. Un ragionamento che può proliferare solo in un sistema antimeritocratico, dove “uno vale uno”, dove le gerarchie sono disprezzate, dove i meno capaci sono promossi anche a costo di svalutare chi ha maggiori capacità. «Se da un lato bisogna proteggere i più deboli e fare sì che chi si merita di laurearsi possa farlo, rifiutare la meritocrazia – che vuole dire selezione, competizione e ricerca dell’eccellenza – significa la continuazione delle vecchie aristocrazie basate sulla ricchezza ereditata e di un declino economico che penalizzerà ancora di più i più poveri», ha scritto Roger Abravanel (CdS, 14 ottobre 2020).

Perché è proprio così: eliminare la meritocrazia a favore di un falso egualitarismo non premia i meno abbienti, quanto chi dispone di risorse per far fronte alle mancanze del sistema dell’istruzione. Concorda Luca Ricolfi (La società signorile): «La pressione a promuovere ha enormemente infiacchito la capacità dei giovani di affrontare compiti difficili, di concentrarsi, di memorizzare […] Sia la lunghezza degli studi […], sia l’abbassamento degli standard hanno finito per danneggiare i ceti popolari, riducendone anziché alzandone le chances di mobilità sociale: la scuola lunga e di bassa qualità è infatti un enorme regalo ai ceti alti, che grazie […] possono permettersi di far studiare i figli fino a tarda età, e […] controbilanciare l’assenza di un’istruzione adeguata.» La scusa del non voler lasciare indietro nessuno non regge. L’anti-meritocrazia non è misericordia e non fa bene agli alunni meno meritevoli.

Il disprezzo per l’istituzione scolastica da parte di molti studenti e i loro genitori va di pari passo con il decadimento dell’interfaccia studentesca, cioè il corpo insegnanti. Molti di questi negli anni si sono irrigiditi in una sorta di lobby intoccabile e inemendabile; altri, invece, portano avanti con dignità l’essenziale formazione delle generazioni future. Quello che però accomuna le due categorie, è la perdita di prestigio percepita della loro mansione. La figura dell’insegnante è svalutata e, aggiunge Ernesto Galli della Loggia (CdS, 25 settembre 2020), «cancellata dal dilagante burocratismo cartaceo, dall’affollarsi di compiti e mansioni, le più varie collaterali all’insegnamento, ma soprattutto da una pervasiva ideologia che ha fatto della scuola un’istituzione di tipo socio-assistenziale, regolata da un democraticismo pseudo-benevolo che si è fatto un punto d’onore nel considerare degli inutili ferrivecchi il merito e la disciplina.»

Non stupiamoci dunque che le molte scuole sfornino individui spesso e volentieri del tutto incapaci di affrontare molte complessità della vita, se l’investimento nel corpo docenti, nelle infrastrutture e nelle risorse scolastiche è al lumicino in molte realtà europee. O, di converso, si spinge per l’egualitarismo che cancella le competenze o le peculiarità individuali. Ad esempio, la Francia investe nell’università l’1.21% del PIL; Germania l’1.16, l’Inghilterra l’1.02, mentre l’Italia lo 0.78 (dati 2019). Se le università francesi, tedesche o inglesi non possono essere ritenute migliori perché investono appena poco di più rispetto all’Italia, è anche vero che l’Italia ha problemi strutturali e di mal investimento da anni. Questo ha prodotto, tra le altre cose, i cosiddetti NEET (“Not Engaged in Education or Training”): oltre il trenta per cento dei giovani tra i venticinque e i ventinove anni, mentre in Grecia sono meno del trenta, in Francia meno del venti, in Svizzera meno dell’otto.

Il fenomeno dei NEET distrugge il concetto di élite e l’aspirazione a diventare tali. Non è un caso se molti disoccupati negli anni abbiano prestato l’orecchio ai movimenti politici dell’uno vale uno, che definiscono il merito un tiranno, che è giusto che lo Stato si occupi di loro e che la scuola pubblica debba promuovere tutti, sempre e comunque. Il rapporto istruzione-élite è ben fotografato da Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale): «Sia Bill Clinton che Barack Obama sembravano dire: “Imitateci! Andate all’università, prendete la laurea. O meglio, un Master”. Per i bianchi in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore che si sentivano già superflui nella nuova economia della conoscenza, tale imperativa delimitazione suonava come un rimprovero esistenziale. Non erano in grado di evitare le élite metropolitane […] Non andavano all’università ed era naturale che cercassero un rappresentante politico disposto a difenderli, che dicesse loro che non erano dei falliti solo perché non avevano una laurea, che assicurasse loro che non erano obbligati a imitare le persone colte, che potevano continuare a essere se stessi.» Da qui l’esplosione dei fenomeni populisti: riconducibili anche al sistema scolastico.

La strada verso la meritocrazia è l’unica che premia sia le élite – quelle del presente e quelle del futuro –, sia i ceti meno abbienti, che élite possono diventare solo se il meccanismo della concorrenza e del merito funziona. Sono due i filoni di riforme che l’Italia può intraprendere nel campo scolastico. E corrispondono a due scuole di pensiero, spiegate da Alessandro Barbano (La visione). «Per la prima la scuola è un’agenzia sociale il cui compito è sfidare le diseguaglianze, garantendo pari opportunità ai più deboli con l’offerta di un sapere di base uguale per tutti, e educare alla cittadinanza […] Per la seconda […]  è la fabbrica delle eccellenze e il volano dello sviluppo della crescita, la chiave per rimettere al centro […] la questione del merito e farne la leva per selezionare la nuova classe dirigente». La prima scoraggia il merito e indirettamente premia solo le élite; la seconda si basa sul merito e consegna anche agli indigenti una potenziale scalata sociale.

Se la strada però non sarà quella di maggiore meritocrazia – e non abbassamento dei migliori per metterli a livello dei meno capaci – Yuval Noah Harari (21 lezioni per il XXI secolo) azzarda previsioni per la scuola del domani, se élite e merito vengono disprezzati. «Se i nuovi trattamenti per allungare la vita o per migliorare le capacità fisiche e cognitive saranno costosi, l’umanità potrebbe dividersi in caste biologiche. Durante tutto il corso della Storia i ricchi e l’aristocrazia hanno sempre immaginato di avere doti superiori rispetto a chiunque altro, ragione per cui detenevano il potere. Non era vero. Un duca qualunque non aveva maggiore talento di un qualsiasi contadino […] Ma nel 2100 i ricchi potrebbero davvero avere più talento, essere […] più intelligenti dei sottoproletari […] Il futuro delle masse dipenderà allora dalla buona volontà di un’élite.» Creare élite dal basso vuol dire non abbassare gli standard della meritocrazia.

Investire nel sapere è capitale, così come promuovere la meritocrazia per sfornare le élite del domani. «Il merito deve tornare ad essere l’esito e insieme la ragione legittimante di un’autonomia decisionale saldamente collocata dentro una preesistente e condivisa gerarchia del sapere», scrive Barbano. Se diventare élite nei secoli passati era impossibile per la stragrande maggioranza della popolazione (dal momento che non c’era meritocrazia), oggi è paradossalmente più aspirabile, considerando che gli strumenti della conoscenza sono a disposizione di tutti. Questo non vuol dire che sia più facile in senso assoluto: la competizione della globalizzazione è aspra ed estremamente selettiva. E soprattutto non è egualitaria, ma premia il merito. Paradossalmente, investire nel concetto di meritocrazia fa più bene ai meno capaci e ai più indigenti che ai più capaci e agli abbienti. (www.amedeogasparini.com)

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