L’intervista a Luca Marinelli: “La carriera? In Italia si può fare di tutto. Lavorare all’estero ti mette in contatto con attrici e attori nel mondo”

L’attore è protagonista con l’amico e collega Alessandro Borghi del film “Le otto montagne”

di Dario Furlani

Foto: Luca Marinelli in una scena di “Le otto montagne”

Un calmo respiro cadenzato. È con questa immagine in parte astratta che si riesce – forse – a comunicare la sensazione di lenta riflessione provata durante la visione del film Le otto montagne (in Italia è uscito nelle sale il 22 dicembre 2022). Per chi conosce i lavori dei registi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (qui alla sua prima regia dopo diverse collaborazioni con Van Groeningen), la metafora non suonerà troppo aliena. Un marchio di fabbrica del regista belga è infatti la capacità di dilatare la narrazione fino al raggiungimento di un equilibrio emotivo, fotografato con grande oggettività.

Le otto montagne, Luca Marinelli

La macchina da presa non assilla i personaggi a distanza ravvicinata, alla ricerca di uno sguardo sfuggevole. La sua regia si limita invece a lasciare che la scena viva e si esprima autonomamente attraverso gli interpreti, dando la sensazione che ogni sequenza sia un organismo a sé stante.

Pochi cineasti sarebbero quindi stati adatti come Van Groeningen a gestire la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega nel 2017. Nelle sue 200 pagine il libro riesce a racchiudere un intenso racconto di formazione che la pellicola riprende fedelmente.

Siamo tra le montagne della Valle d’Aosta, in un piccolo paesino abitato da una manciata di anime. Per l’undicenne Pietro e la sua famiglia la montagna è un rifugio dove scappare dall’odiato caos di Torino. Sarà lì che il piccolo cittadino conoscerà un coetaneo del posto, Bruno, che vive appieno un’esistenza alpina immersa nella natura. Cittadini e montanari si scontrano, formando un singolare quanto solido rapporto fraterno.

Questa amicizia si interromperà per molto tempo per sbocciare anni dopo, quando il padre di Pietro lascia in eredità un terreno sulle Alpi e un sogno: costruire lassù una nuova casa. Decidendo di realizzare insieme il progetto del papà di Pietro, i due amici ormai adulti ritroveranno un rapporto semplice ma profondo, fatto di intima complicità e comprensivi silenzi.

Se l’impressione è che i protagonisti della vicenda siano due, si è fuori strada. Un terzo personaggio, imponente ma allo stesso tempo sempre in secondo piano, rappresenta il perno attorno a cui tutte le figure girano. La montagna domina ogni scena e agisce come un campo gravitazionale, al cui centro tutto prima o poi arriva. La sua magia silente attrae istintivamente l’essere umano che cerca sempre, seppur inutilmente, di scardinarne i segreti.

I turisti provenienti dalle affollate città a sud, così abituati alla concitata vita urbana, non riescono a comprendere il significato profondo della montagna. Mentre tentano invano di incasellarne la bellezza con termini astratti come ‘Natura’, gli abitanti locali si limitano a indicare gli elementi concreti che la formano. Boschi, pascoli e rupi sono la sostanza delle Alpi, ciò che definisce quel miracolo così intrinsecamente magnetico. Usando un’espressione gucciniana, sono infatti i saggi ignoranti di montagna che hanno vissuto tutta la loro vita in alta quota, ad avvicinarsi di più all’essenza di quei paesaggi.

Le otto montagne, Borghi e Marinelli

Nonostante la centralità della Natura (ed ecco che il cittadino urbano che sta scrivendo cade nell’ottusa ottica borghese), la vera colonna portante del film è la relazione tra Pietro e Bruno, interpretati rispettivamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Il loro rapporto si evolve per tutto l’arco della durata e, data la loro educazione diametralmente opposta, percorreranno sentieri diversi per raggiungere la propria pace.

Mentre Bruno si sente completo in una semplice connessione profonda con la sua terra, Pietro deve andare fino alle esotiche montagne nepalesi per trovare sé stesso. Ed ecco che una vecchia leggenda himalayana offre la chiave di lettura per film se non per la vita stessa: ‘Chi ha visto di più, colui che ha scalato la montagna più alta al centro di tutto o colui che ha visitato le otto montagne che la circondano?’.

Allo Zürich Film Festival abbiamo incontrato Luca Marinelli, che ci ha raccontato la sua esperienza durante le riprese.

Com’è l’esperienza di essere diretti da due registi?

“È stato stupendo lavorare con loro. Ne parlavo anche con Alessandro Borghi, compagno di scena, nonché grande amico. Felix e Charlotte hanno un equilibrio pazzesco, credo sia molto difficile dirigere un film a quattro mani, dato che ognuno ha la propria visione e sensibilità. Invece loro andavano sempre assieme. Se c’era qualche la possibilità di affrontare un elemento del film in una maniera nuova erano molto rapidi a trovare una soluzione e a proporci la loro visione.

Spesso la parte più tecnica la gestiva Felix mentre quella di comunicazione con la crew era affidata a Charlotte. Ma non è neanche vero questo, perché altre volte era l’esatto contrario. Io l’ho vissuta come una loro danza. Spesso si compara il regista al direttore d’orchestra, in questo caso era come se la bacchetta fosse impugnata da entrambi”.

Se guardiamo la tua filmografia passi da essere Martin Eden a Diabolik fino allo Zingaro di ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, ruoli totalmente diversi tra loro. Qual è il tuo ruolo ideale, in cui pensi di rispecchiarti molto?

“Non ne ho idea. Innanzitutto, penso di essere estremamente fortunato nell’avere avuto la possibilità di lavorare in tanti progetti così diversi tra loro. Per rispondere alla tua domanda non credo di avere un ruolo preciso in mente, però ho sempre voluto fare un bello spaghetti western, come ci insegnava il grande Sergio Leone”.

In Italia non si producono più molte pellicole di genere, soprattutto western. Andare a lavorare all’estero è una possibilità?

“Penso che in Italia ci sia la possibilità di fare di tutto e credo che la cosa importante sia avere il coraggio di raccontare tutte le storie possibili. L’estero… a Roma diciamo ‘magari ce cascheno’, ovvero magari cascano nel tranello di prendere me per fare un bel film. A me piacerebbe molto, più che altro per entrare in contatto con attori e attrici di ogni parte del mondo. Questo mestiere è uguale in ogni parte del mondo, ma presenta miliardi di sfumature, che sono appunto le persone a qualsiasi latitudine”.

Nel film viene mostrata la profonda differenza tra la vita di città e quella alpina e viene raccontata la difficoltà che hanno i borghesi di Torino a comprendere l’essenza della montagna. Come fa un attore nato e cresciuto a Roma a immergersi e comprendere le dinamiche alpine?

Le otto montagne, Alessandro Borghi

“Secondo me questa è la parte più difficile che ha dovuto affrontare Alessandro nell’impersonare Bruno. Ci siamo immersi entrambi in questa cultura ma almeno io, dato il mio personaggio, avevo la possibilità di sembrare un pesce fuor d’acqua. Però abbiamo vissuto molto quei luoghi. Ho incominciato a frequentare Paolo Cognetti assieme ai registi, pensa però che loro due sono stati lì in Valle D’Aosta quasi un anno, e nel frattempo hanno imparato l’italiano per comunicare meglio con il resto del team.

Tornando alla domanda, Pietro è un ragazzo abituato ai lussi della città e vive anche lui questo contrasto netto. Per capire questo scontro ho passato molto tempo nella baita che costruiamo nel film, e quello è un luogo che ti riporta a qualcosa di ancestrale e unico. Quando dovevamo girare le scene alla Balmadrola [nome della baita] dovevamo camminare dai 1500 metri dove eravamo fino ai 2300 del rifugio. Pensa che alla fine delle riprese abbiamo passato lassù l’ultima notte per celebrare quel posto unico… un freddo che non ti dico. Abbiamo cercato quindi di vivere appieno quei luoghi e io me ne sono innamorato.

Questo tipo di montagna non l’avevo mai vissuta, quella che conoscevo io arrivava a 900 metri, mentre con questo film siamo arrivati a 4400 metri per girare le scene in Nepal. Per non parlare delle persone che ho conosciuto in Valle D’Aosta, gli amici di Paolo Cognetti: conoscerli è stata un’emozione grandissima e mi mancano tanto, non vedo l’ora di tornare là”.

Pensi di avere scalato le tue otto montagne?

“No. Un po’ ne ho scalate ma c’è ancora tanto da fare”.

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