Si è sentito un po’ a casa e felice di esserci, Andrea Di Consoli, quando lo abbiamo incontrato grazie ai mezzi virtuali per un’intervista al Corriere. Perché in un curriculum tutto italiano, scrittore di romanzi, saggi e poesie, attività giornalistica per testate nazionali come “Il sole 24” ore e “il Mattino”, autore e documentarista per la Rai (“Linea blu”, “Uno mattina”, “Teche Rai”), c’è un incipit biografico che racconta di genitori che da Rotonda, paesello della Lucania, si trasferirono a Uster in Svizzera. È là che Andra Di Consoli è nato ed è vissuto fino all’adolescenza . Il suo ultimo libro, “Diario dello Smarrimento” (ed. Inshibollet, 2019) appare quasi una profetica definizione del tempo pandemico che stiamo vivendo.
Andrea, lo smarrimento declinato in molti modi – compresa la “sindrome della capanna – la paura per molti di tornare in una realtà dalla quale il COVID aveva paradossalmente protetto e di cui ha parlato di recente in televisione è stato un sentire diffuso negli ultimi mesi. Doti di preveggenza?
Forse solo dote di osservatore di noi e del modo in cui sta camminando la nostra società. Ho raccontato uno smarrimento privato che in realtà si andava facendo collettivo in un momento di accelerazioni, cambiamenti continui e quindi incertezze: famiglia destrutturata, tecnologia applicata a ogni aspetto della nostra vita, ossessione per il corpo e l’aspetto fisico, paese sempre meno religioso, spersonalizzazione causata dai social e conseguente difficoltà nei rapporti interpersonali. Il diario racconta come però lo smarrimento possa costituire un momento in cui la razionalità si mette in moto per mettere a fuoco riflessioni e fa da sprone a tirar fuori risorse. E una cosa è certa, allo smarrimento non bisogna rispondere con la chiusura, l’ipocondria e la difesa a riccio ma col coraggio di affrontare nuove situazioni, ribaltare schemi che si sono esauriti: dobbiamo uscire ogni mattina in mare aperto come i pescatori per trovare nuovi approdi. Il rischio della depressione in questo momento è dietro l’angolo, perché la paura, il lamento, le prospettive negative stanno prevalendo; all’apparenza siamo in una società dinamica, in realtà non è così, siamo abitudinari e abitiamo una società dell’avventura senza rischi. Ovviamente quando parlo di coraggio di uscire di casa e rischiare non mi riferisco agli aperitivi o alla movida ma al coraggio di superare uno stato di torpore.
Da osservatore profondo della società, quali scenari ritieni possibili nel prossimo futuro?
Credo che la vera crisi in un certo senso riguarderà i grandi centri urbani. Con questa crisi sarà difficile restare in città per chi vi era emigrato per lavorare o studiare; le fasce periferiche stanno mostrando grandi sofferenze; lavori persi o discontinui ma anche il disagio sociale renderanno le città molto meno appetibili e magari questo porterà a un ripopolamento graduale delle aree interne, dove si potrà vivere con meno soldi e dove sarà possibile reinventarsi. Vero è che i ritorni avranno il sapore della sconfitta, ma a mio avviso creare energia tra chi torna e chi era rimasto può avere il sapore di un nuovo futuro. Mi auguro inoltre, sia pure con amarezza, che un pezzo della gioventù italiana venga assorbita all’estero nei prossimi mesi e anni, perché in Italia i prossimi anni offriranno pochissimo, per le nuove generazioni. Dico questo con grande dolore. Il nostro è un Paese in cui il lockdown ha esasperato una serie di problemi preesistenti che non si risolveranno certo aumentando ulteriormente il debito pubblico.
Cosa pensi resterà da questa paura del contagio?
L’insistenza del tema sanitario in questo momento sta strutturando il rischio di clinicizzare l’ideologia delle persone: parlare di continuo di prevenzione, malattie, cure, ad esempio, rischia di farci dimenticare di vivere. Le risposte al tema della malattia, della caducità, della deperibilità, della morte devono essere altre, perché mettere al centro della discussione il tema medico sta distogliendo da altri temi fondamentali e può portare a una sorta di ipocondria di massa in cui lo spazio della vita sarà occupato dall’ossessione di ammalarsi. Sia chiaro, la prevenzione è fondamentale, ma clinicizzare il discorso della vita renderà la vita un inferno di paure.
In cosa è cambiata l’emigrazione italiana in Svizzera?
Gli italiani vanno sempre meno in Svizzera perché l’economia avanzata elvetica richiede non solo eccellenze sul piano scientifico, tecnico, tecnologico e finanziario ma anche una mentalità compatibile con quella svizzera, che è molto strutturata. È una nazione pacifica e amichevole, non conflittuale, ma nella quale è importante riconoscere le gerarchie, le regole da rispettare, un certo modo di stare dentro a un ordine antropologico ben strutturato.
E i nuovi rapporti tra Svizzera e Italia come li immagini?
Li auspico, li desidero, intensi, proprio come un tempo, ma non nostalgici, da rimpatriata. Purtroppo la Svizzera e l’Italia dialogano poco, perché la Svizzera è una realtà che nonostante molte aperture mantiene uno specifico identitario molto forte. Sarebbe vincente unire il rigore e la precisione svizzera all’estrosa creatività italiana. C’è da ripensare i nostri rapporti consolidati da una familiarità che da generazioni ci accomuna per costruire nuovi scenari anche economici in un momento in cui davvero nessuno è al sicuro. Potremmo fare grandi cose insieme, se solo ci incontrassimo senza reciproci pregiudizi.